La democrazia iraniana è in piena ebollizione. Le divisioni del 2009 sono ormai superate dagli eventi, al punto che il presidente Obama ha appena ammesso pubblicamente che Mahmud Ahmadinejad era stato ben eletto a suo tempo da una maggioranza dei suoi connazionali. Il movimento verde che aveva saldato la borghesia urbana e una parte della gioventù non è durato a lungo. Ormai, Washington non fa più conto sul rovesciamento del regime, ma sulla sua divisione. Gli USA vorrebbero approfittare della crisi tra la corrente religiosa del clan Larijani e la corrente nazionalista della famiglia Ahmadinejad.
A quattro mesi delle elezioni presidenziali iraniane, ancora non si sa chi sarà candidato a subentrare, per quattro anni, al carismatico Mahmud Ahmadinejad. Conformemente alla Costituzione, poiché il presidente uscente ha prestato servizio per due mandati consecutivi, non si ripresenterà, ma potrebbe non allontanarsi dal potere e ricomparire in lizza alle prossime elezioni, alla maniera di un Vladimir Putin.
Nel 2009, delle manifestazioni avevano agitato Teheran e Isfahan: i sostenitori del candidato liberale accusavano il potere di aver truccato i risultati delle elezioni. Questo movimento era presto rimasto senza fiato, ma aveva lasciato traumi profondi fra i giovani. Era stato spento da una manifestazione gigantesca a sostegno delle istituzioni della Rivoluzione islamica. Gli iraniani, pure quelli convinti dagli argomenti del perdente, gli rimproveravano di aver fatto appello alla rivolta.
I giovani non avevano letto il programma di Moussaoui e ignoravano la sua apologia del capitalismo globalizzato. Lo immaginavano, a torto, liberale in materia di costumi. Malgrado ciò, erano stati convinti che dovevano scegliere tra le loro libertà individuali e «il regime». Avevano improvvisamente disertato le commemorazioni nazionali.
Stordito dalla violenza del colpo, il potere aveva tardato a elaborare qualcosa a propria tutela. Ci fu dapprima una difesa mediatica. Ad esempio, analizzando fotogramma per fotogramma il famoso video della giovane Neda a prima vista uccisa dalle forze dell’ordine durante una manifestazione anti-regime, gli esperti iraniani dimostrarono che si trattava invece di una messa in scena. Poi, ci fu l’organizzazione di gruppi di discussione, animati da formatori adulti, per inquadrare i giovani e trasmettere loro l’ideale dei loro anziani. Tutti questi sforzi hanno dato i loro frutti e si può osservare ancora una volta una forte partecipazione dei giovani con meno di 30 anni alle ultime cerimonie patriottiche.
Da parte sua, Washington non ha risparmiato alcuno sforzo per perturbare la società iraniana e giocare sui conflitti generazionali. Più di un centinaio di canali televisivi in lingua farsi sono stati creati per inondare via satellite il paese con il «sogno americano». Hanno distolto gli iraniani dalle loro emittenti nazionali, ma non è certo che li abbiano convinti a fondo.
Mentre tutti si stavano preparando a un nuovo tentativo di rivoluzione colorata, la sorpresa è venuta dalla coalizione di governo. Il classico confronto tra nazionalisti e religiosi si è fatto più duro e ha finito per scoppiare in pubblico. Il presidente della repubblica, Mahmud Ahmadinejad, e quello del Parlamento, Ali Larijani, si accusano a vicenda di proteggere dei collaboratori corrotti. Le immagini dei loro alterchi sono trasmesse in continuazione dalle televisioni occidentali in lingua farsi. Nonostante le sue esortazioni, la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, non è riuscito a calmare i protagonisti.
Per contro, il sostegno popolare goduto da Ahmadinejad è massiccio in tutto il paese, tranne paradossalmente a Teheran, la città di cui fu sindaco.
La rapida industrializzazione del paese, i recenti programmi di redistribuzione dei profitti petroliferi sotto forma di indennità mensili per ogni adulto, e la costruzione diffusa di alloggi a prezzi agevolati hanno legato a lui gli operai e i contadini. Ahmadinejad, il quale percepisce che il suo candidato sarà largamente eletto, non esita più a sfidare i religiosi e a mostrare che, se fosse dipeso da lui, le esigenze dei giovani sarebbero soddisfatte. Si è perfino permesso di celebrare la bellezza del hijab per meglio criticare la legge che rende obbligatorio indossarlo. Ali Larijani e suo fratello Sadeq (capo dell’autorità giudiziaria) vedono bene che il loro rivale tenta di spostare le linee per imporre la candidatura del suo capogabinetto, Esfandiar Rahim Mashaei. Questi si applica a riscrivere i discorsi ufficiali per modificare i riferimenti religiosi in un senso universale e non più esclusivamente sciita. I religiosi temono che questa flessibilità sia la porta aperta al deterioramento dell’Islam. Replicano facendo correre delle voci sul fatto che la famiglia Ahmadinejad abbia perso la ragione, si creda a diretto contatto con il Mahdi e attenda il suo arrivo riservandogli un posto vuoto al Consiglio dei ministri. Per calmare le acque e mantenere l’unità della Rivoluzione, la Guida potrebbe pretendere dalla famiglia Ahmadinejad di nominare un candidato che causi meno divisioni rispetto a Mashaei.
I media occidentali sono presi da schizofrenia. Mentre i loro canali in lingua farsi si beano di questo scontro, le loro emittenti che trasmettono nelle lingue europee non dicono una parola. Continuano a far credere ai loro telespettatori che l’Iran sia una dittatura monolitica governata dai mullah. I giovani che sono scesi in piazza contro il «regime» sono spesso diventati i più ferventi sostenitori di Ahmadinejad e dovrebbero sostenere il suo candidato a giugno. Pensano che, con lui, la Rivoluzione islamica possa conciliare liberazione nazionale e libertà individuali.
Restate in contatto
Seguiteci sui social network
Subscribe to weekly newsletter