Kerry ha annunciato con enfasi la ripresa del negoziato. Lei all’orizzonte
intravede qualcosa di concreto?

Ilan Pappé : Nulla. Non credo assolutamente
che questo nuovo tentativo porti da
qualche parte, come i precedenti, a
partire dagli accordi di Oslo (1993).
Perché parte dalle stesse basi, ossia
che è meglio avere un processo (di
pace) che non averlo. Anche se questo
processo non produrrà nulla.
Per questa ragione non c’è alcuna
spinta reale per israeliani ed americani
a fare e a dare di più per arrivare
a risultati concreti.

Non c’è nulla di nuovo rispetto al
passato?

Ilan Pappé : Nessuna novità, anche perché
non si è modificata la base del cosiddetto
«consenso» (nazionale)
che unisce gli israeliani quando si
parla di Cisgiordania e Striscia di
Gaza. E’ la stessa visione, la stessa
strategia di sempre e va riconosciuto
all’attuale leadership politica israeliana
di aver ammesso che non andrà
al negoziato per presentare soluzioni
nuove. Sono peraltro convinto
che questo rilancio del negoziato
bilaterale, così come viene descritto
dal Segretario di Stato Kerry, non
sarebbe stato possibile se non fosse
intervenuta la posizione forte manifestata
dall’Unione europea nei
giorni scorsi. Posizione che stabilisce
nuove linee guida nei confronti
delle colonie israeliane nei Territori
arabi e palestinesi occupati e che
ora, almeno sulla carta, non potranno
godere di alcuna cooperazione
né aiuto da parte dell’Europa. Anche
queste pressioni hanno convinto
Netanyahu che è meglio portare
avanti qualche forma di dialogo
con i palestinesi, per impedire che
siano adottate sanzioni contro Israele
e le sue colonie.

Decisioni frutto di necessità tattiche
e non di una strategia...

Ilan Pappé : Esatto. Il paradigma è sempre lo
stesso, non è cambiato e non cambierà.
E non c’è alcun motivo per
pensare che questo negoziato, ammesso
che si sviluppi nelle prossime
settimane, possa portare a qualche
soluzione.

Si avvicina l’appuntamento di settembre
dell’Assemblea generale
dell’Onu, che i palestinesi in questi
ultimi anni hanno utilizzato per
annunciare passi verso la loro indipendenza,
almeno sulla carta o
in modo simbolico. L’insistenza
americana a riprendere le trattative
senza avere nulla in mano serve
anche a impedire nuove mosse
unilaterali da parte palestinese?

Ilan Pappé : Senza dubbio. Israeliani e americani
vogliono che si porti avanti
quello che io definisco il «Piano A»
e non che si realizzi un «Piano B». Il
«Piano A» prevede che i colloqui
con i palestinesi vadano avanti con
Israele padrone della situazione nei
Territori occupati e libero di espandere
le sue colonie, con l’Autorità
nazionale palestinese (di Abu Mazen)
impegnata a impedire lo sviluppo
di qualsiasi forma di resistenza,
non solo armata, all’occupazione
militare. Il «Piano B» invece è
quello che vede i palestinesi rivolgersi
alle istituzioni internazionali
per ottenere la realizzazione dei loro
diritti e chiedere che sia sanzionata
l’occupazione e i crimini che
commette. Il «Piano B» include
un’Europa più consapevole dei diritti
dei palestinesi e, forse, una nuova
rivolta popolare palestinese contro
l’oppressione. Per impedire che
prenda il via il «Piano B», gli americani
e gli israeliani rilanceranno
sempre il «processo di pace», ossia
il «Piano A», che è quello di dialogare
tanto per dialogare senza prospettive
di una soluzione fondata
sulla legalità internazionale.

Siamo a quasi venti anni dalla firma
degli Accordi di Oslo e dalla
stretta di mano tra lo scomparso
presidente palestinese Yasser
Arafat e il premier israeliano assassinato
Yitzhak Rabin. Venti anni
dopo qualcuno scrive che quella
del 1993 era una leadership
israeliana pacifista mentre quella
attuale sarebbe ultranazionalista
e interessata solo ad espandere
le colonie. Lei come la vede?

Ilan Pappé : Penso che non ci siano differenze
significative tra quella leadership e
l’esecutivo di Netanyahu. Tutti i governi
israeliani dal 1967 a oggi (dall’occupazione
dei Territori, ndr)
hanno sviluppato la stessa strategia:
 1. tutta Gerusalemme appartiene
a Israele e non ci sarà un compromesso
sulla città;
 2. i profughi
palestinesi non rientreranno mai alle
loro città di origine;
 3. Israele
non può esistere senza la Cisgiordania.
Il cuore pulsante della politica
israeliana era e resta l’idea sionista
che la Cisgiordania è parte di Israele,
a dispetto di qualche esponente
politico apparentemente più flessibile
che, rispetto ad altri, prevede
qualche «concessione» in più da fare
ai palestinesi.
Certo, ci sono (tra i
vari governi) delle differenze su come
controllare la Cisgiordania. Ad
esempio annetterla tutta o dividerla
in una zona israeliana e una palestinese?
Concedere o negare l’autonomia
ai palestinesi? Concedere o
negare una sorta di indipendenza
ai palestinesi continuando ad avere
il controllo della sovranità reale?
Ma è solo tattica.

Quindi, siamo fermi al punto di
sempre.

Ilan Pappé : Già. Se esiste una differenza tra la
leadership degli Accordi di Oslo e
quella attuale, allora consiste in
questi aspetti tattici. Il governo in
carica, ad esempio, punta a un controllo
maggiore della Cisgiordania,
a causa dei suoi legami con il movimento
delle colonie. A tutto ciò dobbiamo
aggiungere un dato centrale.
Oggi, rispetto a 20 anni fa, per l’opinione
pubblica israeliana non esiste
più un problema palestinese, la
questione palestinese è invisibile,
sparita da ogni orizzonte. Il popolo
occupato, semplicemente, è scomparso
dalla mente di milioni di israeliani.

Fonte
Il Manifesto (Italia)