Il giorno dopo che il Parlamento egiziano è stato sciolto dalla Corte costituzionale, di fatto su ordine del Consiglio supremo delle forze armate, è sceso in campo il Dipartimento di stato Usa, garantendo che il Consiglio si è impegnato a trasferire il potere, il 1° luglio, al presidente eletto. Washington assicura che, per tutta la «transizione alla democrazia» in Egitto, è rimasto in stretto contatto con il Consiglio militare supremo.
Nessuno ne dubita: l’amministrazione Obama ha deciso tre mesi fa di riprendere il finanziamento delle forze armate egiziane, sospeso dal Congresso quando alcuni impiegati di organizzazioni «non-governative» Usa erano stati arrestati per aver finanziato sottobanco, con milioni di dollari, vari gruppi egiziani nel quadro dei «programmi di addestramento alla democrazia». Una volta rilasciati, Washington ha sbloccato l’aiuto militare di quest’anno: 1,3 miliardi di dollari, depositati in un conto a firma congiunta, cui si aggiungono 250 milioni per programmi economici e politici in Egitto, più un’altra ingente cifra per programmi segreti.
Il risultato si è visto. Forte del sostegno di Washington, il Consiglio militare supremo ha fatto cancellare la legge, varata in maggio dal parlamento, che vietava la candidatura di ex alti funzionari del regime di Mubarak: ha potuto così candidare alle presidenziali il generale Ahmed Shafik, nominato da Mubarak primo ministro poco prima di essere deposto. E, dopo aver fatto sciogliere il parlamento, il Consiglio militare supremo ha promulgato, mentre si tenevano le elezioni, una «costituzione ad interim» che rafforza ulteriormente i suoi poteri, in attesa di quella definitiva redatta da una commissione di un centinaio di membri, nominati dal Consiglio stesso. Così, anche nel caso che si insedi alla presidenza il candidato dei Fratelli musulmani Mohamed Morsi, il potere reale resterà nelle mani del Consiglio supremo. Quella casta militare finanziata e armata dagli Stati uniti, che durante il regime di Mubarak è stata la vera detentrice del potere. La stessa che il presidente Obama ha presentato quale garante della «ordinata e pacifica transizione», quando Mubarak, dopo essere stato al servizio degli Usa per oltre trent’anni, è stato rovesciato dalla sollevazione popolare.
Mentre denunciano «violazioni della democrazia» in Siria e Iran, gli Stati uniti esportano il loro «modello di democrazia» anche in altri paesi del Nordafrica e Medioriente. Nello Yemen, ha ammesso ufficialmente il presidente Obama, forze militari Usa conducono operazioni dirette. Formalmente contro Al Qaeda, in realtà contro la ribellione popolare. E, tramite Arabia saudita e Gran Bretagna, Washington arma il regime yemenita, che riceverà forniture militari per 3,3 miliardi di dollari. Lo stesso fa con la monarchia del Bahrain che, dopo aver ferocemente represso (con l’aiuto di Arabia Saudita, Emirati e Qatar) la lotta popolare per i fondamentali diritti democratici, ha imprigionato e torturato una ventina di medici, accusati di aver aiutato gli insorti, curando i feriti.
Premesso che il governo del Bahrain deve «risolvere gravi questioni relative ai diritti umani», Washington annuncia nuove forniture di armi, che verranno usate per reprimere nel sangue la lotta per la democrazia.
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