Ha visitato nove paesi africani – Senegal, Uganda, Sud Sudan, Kenya, Malawi, Sudafrica, Nigeria, Ghana, Benin – benedicendo le platee con i suoi «God bless you», giurando che Washington ha quale unico scopo in Africa «rafforzare le istituzioni democratiche, promuovere la crescita economica, far avanzare la pace e la sicurezza».
La segretaria di stato Hillary Clinton è dunque andata in Africa, in pieno agosto, per fare opere di bene. L’hanno accompagnata, nella nobile missione, gli executive delle maggiori multinazionali Usa. Affari sì, ma guidati da un principio etico che la Clinton ha così enunciato a Dakar: «Nel 21° secolo, deve finire il tempo in cui degli estranei vengono ad estrarre la ricchezza dell’Africa per se stessi, lasciando dietro di sé niente o molto poco».
La Clinton, si sa, è convinta sostenitrice del commercio equo e solidale. Come quello praticato in Nigeria, la cui industria petrolifera è dominata dalle compagnie Usa, che si portano a casa metà del greggio estratto per oltre 30 miliardi di dollari annui. Una colossale fonte di ricchezza per le multinazionali e per l’élite nigeriana al potere, di cui poco o niente resta alla popolazione. Secondo la Banca mondiale, oltre la metà dei nigeriani si trova sotto la soglia di povertà e la durata media della vita è di appena 51 anni. L’inquinamento petrolifero, provocato dalla Shell, ha devastato il delta del Niger: per decontaminarlo, valuta un rapporto Onu, ci vorrebbero almeno 25 anni e miliardi di dollari.
Lo stesso si prepara per il Sud Sudan, dove, dopo la scissione dal resto del paese sostenuta dagli Usa, si concentra il 75% delle riserve petrolifere sudanesi, cui si aggiungono preziose materie prime e vaste terre coltivabili. La compagnia texana Nile Trading and Development, presieduta dall’ex ambasciatore E. Douglas, si è accaparrata, con una elemosina di 25mila dollari, 400mila ettari della migliore terra con diritto di sfruttarne le risorse (anche forestali) per 49 anni.
L’accaparramento di terre fertili in Africa, espropriate alle popolazioni, è divenuto un lucroso business finanziario, gestito dalla Goldman Sachs e la JP Morgan, su cui speculano con i loro fondi anche la Harvard e altre prestigiose università statunitensi.
La strategia economica Usa incontra però in Africa un formidabile ostacolo: la Cina, che a condizioni vantaggiose costruisce per i paesi africani porti e aeroporti, strade e ferrovie. Per superarlo, Washington getta sul tavolo l’asso pigliatutto: il Comando Africa, che «protegge e difende gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati uniti, rafforzando le capacità di difesa degli stati africani». In altre parole, facendo leva sulle élite militari (che il Pentagono cerca di reclutare offrendo loro formazione, armi e dollari) per portare più paesi possibili nell’orbita di Washington.
Quando non riesce, l’Africom «conduce operazioni militari per fornire un ambiente di sicurezza adatto al buon governo». Come l’operazione Odyssey Dawn, lanciata dall’Africom nel marzo 2011: l’inizio della guerra per rovesciare il governo della Libia (il paese africano con le maggiori riserve petrolifere) e soffocare gli organismi finanziari dell’Unione africana, nati soprattutto grazie agli investimenti libici.
Così ora, in Libia, c’è un «buon governo» agli ordini di Washington.
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