Il presidente Donald Trump non è un Repubblicano, anche se è stato appoggiato dal Partito repubblicano. Si definisce jacksoniano e spesso si richiama al presidente Andrew Jackson (1829-1837). Per capire Trump e giudicarne le azioni è necessario conoscere quelle del predecessore cui si ispira.
Il generale Jackson cercò di trasformare gli Stati Uniti da monarchia senza nobiltà in democrazia autentica e di sostituire il commercio alle guerre.
Quasi tutti i commentatori non riescono a capire cosa intenda fare il presidente rieletto degli Stati Uniti Donald Trump, perché erroneamente interpretano le sue azioni attraverso il prisma delle ideologie repubblicana o woke. Tuttavia, Trump, che ha fatto parte, in successione, del Partito democratico, del Tea Party e del Partito repubblicano, sostiene di ispirarsi a una quarta ideologia: il jacksonismo. Durante il primo mandato nello studio ovale c’era un ritratto del predecessore Andrew Jackson.
Ma cos’è il jacksonismo?
Chi è stato Andrew Jackson
Andrew Jackson, la cui famiglia morì quasi tutta per le conseguenze delle guerre contro gli inglesi, era avvocato. Come tale redasse la Costituzione del Tennessee (1796), giudicata sbilanciata a favore del potere legislativo a scapito di quello esecutivo (il governatore), e che inoltre non istituiva una corte suprema. Ciononostante fu salutata dal presidente Thomas Jefferson come «la meno imperfetta e la più repubblicana delle Costituzioni».
La sezione 1 dell’articolo III riconosceva il diritto di voto a tutti gli uomini liberi (bianchi e neri) di età pari o superiore a 21 anni, che possedessero una proprietà o che risiedessero nella contea elettorale da almeno sei mesi. Un’altra disposizione attribuiva agli uomini in servizio nella milizia il diritto di eleggere i loro ufficiali. La Dichiarazione dei diritti allegata alla Costituzione affermava che agnostici e atei hanno gli stessi diritti dei credenti. Questi tre punti confliggevano in toto con l’ideologia dei puritani dell’East Cost.
Durante la guerra tra Francia e Regno Unito del 1812, Parigi e Londra imposero un blocco navale. Fu per costringere l’impero russo a rispettare questo blocco che Napoleone attaccò la Russia; mentre la ragione per cui Washington entrò nuovamente in guerra contro l’ex colonizzatore fu la confisca, disposta dal primo ministro di Sua Maestà, di 900 navi statunitensi che tentavano di commerciare con la Francia.
Durante questa guerra, chiamata Seconda guerra d’indipendenza, Andrew Jackson, divenuto generale, si distinse tanto per capacità militari quanto per capacità diplomatiche. Riuscì a manovrare indiani Creek e, soprattutto, indiani Cherokee. La guerra non portò a nulla, giacché si concluse con un trattato che fissava il ritorno alle condizioni prebelliche, ma il generale Jackson ottenne la prima vittoria militare della storia degli Stati Uniti.
Jackson si ritirò poi in Florida, dove fu eletto governatore. Sebbene non rientrasse esplicitamente nei suoi poteri, fece giustiziare due spie britanniche. I suoi avversari definirono l’esecuzione «assassinio». Nel 1824 si candidò alla presidenza degli Stati Uniti ottenendo sia la maggioranza del voto popolare sia quella dei grandi elettori (designati dai governatori). Grazie però a un abile raggiro (un accordo post-elettorale tra gli altri due candidati), la sua vittoria non fu riconosciuta. Il Collegio elettorale, formato dai rappresentanti dei governatori, nominò John Quincy Adams. Si tratta di una vicenda antesignana di quella del 2020, quando fu nominato Joe Biden invece di Trump. Furioso, Jackson fondò il Partito democratico per farvi confluire i propri sostenitori. L’elezione rubata fu un tema elettorale sfruttato sia da Jackson sia da Trump.
Dopo l’adozione di molti Stati del voto consultivo come indicazione ai governatori dei grandi elettori da scegliere, nel 1828 Jackson fu eletto presidente in modo incontestabile. Rimarco, per inciso, che la Costituzione degli Stati Uniti non stabilisce che il presidente venga eletto a suffragio universale, diretto o indiretto, ma dai rappresentanti dei governatori: secondo le loro stesse parole, i Padri Fondatori non avevano certamente intenzione di istituire una democrazia. Jackson fu quindi il primo presidente eletto, non già a suffragio universale, ma grazie al sostegno del suffragio universale. Nel suo discorso d’insediamento, s’impegnò a respingere gli indiani verso ovest. La sua base popolare, per acclamarlo, si riversò così numerosa sulla Casa Bianca da devastarla: il neopresidente fu costretto a fuggire da una finestra.
Jackson sposò la giovane Rachel, che erroneamente si riteneva divorziata, giacché l’atto di divorzio non era stato ancora registrato. Gli avversari ne approfittarono per sollevare uno scandalo, accusandolo di vivere con una donna bigama. Poiché Rachel morì prima del secondo mandato presidenziale, Jackson affidò il ruolo di first lady alla nipote Emily, sposata con il cugino Andrew Jackson Donelson, suo segretario particolare.
Formando la propria amministrazione Jackson volle liberarsi di tutti i funzionari corrotti. Non trovando sostituti, alla fine si attorniò di parenti e amici. Il segretario alla Guerra, l’amico John Eaton, in assenza del presidente alloggiava, per ragioni di comodità, alla Casa Bianca. Gli anti-jacksoniani diffusero voci su una vita scandalosa dei coniugi Eaton.
Questi scandali a carattere sessuale, inventati dagli oppositori puritani, provocarono una spaccatura tra Jackson e il suo vicepresidente, che aveva una mentalità affine a quella dell’élite della East Cost.
Nel 1830 Jackson fece approvare l’Indian Removal Act (legge per lo spostamento degli indiani). L’idea era dividere il territorio del Nord America spostando gli indiani a ovest del Mississippi. Furono firmati 70 trattati per un totale di 68 milioni di dollari d’indennizzo. Jackson si scontrò con il leggendario David Crockett, rappresentante del Tennessee. Vennero sfollate una cinquantina di tribù, tra cui i Cherokee, che firmarono anche loro un trattato di pace. La tribù interpellò due volte la Corte suprema affinché desse un’interpretazione autentica del trattato. L’esodo dei Cherokee fu particolarmente duro, venne infatti chiamato Sentiero delle lacrime: un quarto degli sfollati morì durante lo spostamento. Questo genocidio non avvenne però durante la presidenza Jackson, ma durante quella del successore. Oggi i Cherokee, che a differenza delle altre tribù indiane non hanno messo in discussione i trattati, sono gli unici indiani a godere di una certa prosperità.
Andrew Jackson, come George Washington e molti altri, era proprietario di schiavi. A due secoli di distanza il movimento woke lo dipinge come uno schiavista e massacratore di indiani, nonché nemico delle minoranze. In realtà adottò un bambino indiano, orfano di guerra, che battezzò Lyncoya. I suoi contemporanei lo accusarono invece di corrompere la civiltà dei bianchi introducendo un indiano nel governatorato della Florida e poi nella Casa Bianca.
Jackson approvò la Dottrina Monroe: le potenze europee si sarebbero astenute dal colonizzare la Americhe, in cambio gli Stati Uniti non sarebbero intervenuti in Europa. Questo principio fu invocato mezzo secolo dopo per consentire agli Stati Uniti di colonizzare l’America Latina senza affrontare la rivalità europea.
Nel 1832 Jackson pose il veto a una legge che rinnovava lo statuto della Banca Centrale degli Stati Uniti, a carattere privato-pubblico (istituita su iniziale proposta di Alexander Hamilton). Nel 1836 pose il veto anche all’istituzione della Federal Reserve (Fed). Nel frattempo fece in modo che il debito pubblico del Paese venisse estinto per intero. Per la prima e unica volta nella loro storia gli Stati Uniti si liberarono del debito pubblico, che oggi ammonta a 34.500 miliardi di dollari, pari al 122,3% del PIL.
L’opposizione di Jackson alla banca centrale cristallizzò il conflitto tra élite e proprietari terrieri. Il presidente riteneva che la banca centrale esercitasse poteri monopolistici e giocasse un ruolo nella vita politica, cioè corrompesse i parlamentari per indurli a votare contro gli interessi del popolo.
Jackson riuscì ad allargare la base elettorale in molti Stati, tanto che al termine della sua presidenza il numero di cittadini aventi diritto al voto era sette volte quello dell’inizio. La sua rielezione nel 1833 fu un trionfo: ottenne il 55% del voto popolare contro il 37% del rivale, nonché 219 elettori contro 49. Giova ribadire: negli Stati Uniti il presidente non è scelto dagli elettori; il voto popolare indica ai governatori il colore dei grandi elettori da scegliere. Solo questi ultimi eleggono il presidente. Gli avversari accusarono Jackson di populismo.
Fu poi la volta della disputa sui dazi doganali, che 25 anni dopo si trasformò nella Guerra di secessione. Un conflitto che, contrariamente a quanto racconta la storia ufficiale, non ebbe nulla a che fare con l’abolizione della schiavitù, praticata da entrambi i campi. Il conflitto nacque dalla decisione della Carolina del Sud di non applicare le tariffe doganali federali (sezionalismo). Jackson, fiutando il pericolo di una guerra civile, condannò simili iniziative nonché l’idea in sé di secessione. Minacciò di morte chiunque avesse imboccato questa strada. Il presidente riuscì a riportare la calma e a preservare l’unità della nazione proponendo, con successo, una posizione intermedia tra quella dei sudisti (a favore del libero scambio) e quella dei nordisti (protezionisti).
Jackson difese sempre il potere centrale contro i governatori, non per affermare il centralismo, ma per sfiducia nelle élite locali, cercò di prevenire la guerra civile appellandosi al popolo. Dal suo punto di vista, gli interessi dei contadini e dei primi operai erano allineati, mentre quelli dei grandi proprietari terrieri e dei capitani d’industria divergevano. In questo conflitto la Banca centrale giocò un ruolo determinante speculando a livello internazionale e rendendo l’economia statunitense dipendente dalle fluttuazioni dei mercati esteri. Jackson riuscì però a concludere accordi tariffari con Regno Unito, Russia e Impero ottomano. Progettò una vasta rete di comunicazione attraverso l’America Latina per esportare i prodotti americani in Estremo Oriente. Negoziò con le potenze europee risarcimenti per le guerre napoleoniche. Si mostrò inflessibile con il re francese Luigi Filippo. Però non riuscì a comprare il Texas dal Messico, probabilmente perché era circondato da diplomatici incapaci. Anche se l’espressione si affermò successivamente, Jackson cominciò a pensare in funzione del «destino manifesto» degli Stati Uniti («Estenderci su tutto il continente assegnatoci dalla Provvidenza per il libero sviluppo dei nostri milioni di abitanti che si moltiplicano ogni anno»). Fu solo dopo Jackson che questo concetto servì a giustificare la volontà di estendere la «forma perfetta di governo» a tutto il mondo.
Gli avversari puritani di Jackson lo dipinsero come ateo che combatteva le chiese, nonché come manipolatore del popolino contro le élite istruite.
Jackson e Trump
L’esempio del generale Jackson, su impulso del segretario particolare del presidente, Andrew Jackson Donelson, divenne una dottrina articolata in due idee-chiave:
• Dal punto di vista tattico: spostare il conflitto tra Stati federati e potere federale al contrasto tra popolo ed élite puritane dell’East Cost.
• Dal punto di vista strategico: sostituire il commercio alla guerra.
Tattica
Ad esempio, durante il primo mandato il presidente Trump sollecitò la Corte suprema a demandare la questione dell’aborto alla responsabilità di ogni Stato federato. Gli oppositori woke, tra cui Kamala Harris, lo accusarono ingiustamente di vietare l’aborto, consentito in 38 Stati.
Jackson tentò di riformare il sistema elettorale per dare a tutti i maschi il diritto di voto, indipendentemente dal colore della pelle. Riuscì a imporre il suffragio universale solo nell’elezione dei senatori. Trump vuole estendere il suffragio universale all’elezione del presidente, abolendo il collegio elettorale nominato dai governatori.
Non dimentichiamoci che la Costituzione fu concepita dai grandi proprietari terrieri che volevano fondare una monarchia senza nobiltà, non certo una democrazia. Non era loro intenzione istituire il suffragio universale, che quindi non ebbe cittadinanza nel testo da loro redatto.
Contrariamento a quanto si pensa, il dibattito sull’elezione del 2020 riguarda innanzitutto l’ambiguità del testo della Costituzione, non il conteggio dei voti. La rielezione di Trump ha dimostrato che il voto popolare si è affrancato dai condizionamenti della classe dirigente.
Trump, come Jackson, ha sempre fatto affidamento sul voto popolare. Entrambi hanno impostato campagne elettorali “populiste”, ossia, nel loro caso, rispondenti alle aspettative della gente e non calibrate sulle soluzioni da loro ideate.
Trump si è appoggiato sulle tecniche di Cambridge Analytica di Steve Bannon: scansione dei social network per analizzare ciò che le persone pensano e indirizzare a profili specifici messaggi calibrati alle loro esigenze. I suoi avversari si sono invece affidati alle tecniche comportamentali e cognitive di Cass Sunstein.
Un breve commento a proposito delle reazioni della folla. Come detto, i sostenitori accorsi per acclamare Jackson devastarono la Casa Bianca non perché volessero distruggerla, ma perché erano troppi. Nel 2020 i sostenitori di Trump danneggiarono gli edifici del Congresso, non perché volessero distruggerli, ma perché erano in troppi. Non c’è mai stato un tentativo di colpo di Stato, come sostengono gli avversari di Trump: c’è stata una cattiva gestione della folla da parte della polizia, come ha dimostrato Joshua Philip nel libro The Real Story of January 6.
Strategia
Jackson volle porre fine alle guerre indiane risarcendo e deportando, con parziale successo, le tribù, come abbiamo visto. Oggi è ragionevole temere che Trump affronti la questione israelo-palestinese allo stesso modo, risarcendo i palestinesi e trasferendoli a forza nel Sinai. Tuttavia ciò significherebbe mettere sullo stesso piano il «destino manifesto» degli Stati Uniti e l’espansionismo dei “sionisti religiosi”. Il rischio esiste, ma al momento non c’è nulla che induca a pensare che quanto si teme accadrà.
Jackson ha sviluppato il commercio degli Stati Uniti nel mondo, negoziando accordi bilaterali (non multilaterali). Trump, che è uomo d’affari, si è ritirato da accordi commerciali multilaterali, per esempio dal Partenariato Transpacifico (TPP). Mentre i suoi predecessori cercavano di stabilire norme con i loro partner economici per poi imporli alla Cina, a Trump non interessano le norme internazionali, purché gli Stati Uniti possano introdursi nei mercati.
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