La notizia è ora ufficiale. Tra breve il Dalai Lama sarà ricevuto da Obama alla Casa Bianca. L’incontro tra queste due anime gemelle era inevitabile: a venti anni di distanza l’uno dall’altro (1989 e 2009) hanno ricevuto entrambi il Premio Nobel per la pace, ed entrambi hanno conseguito questo riconoscimento ad maiorem Dei gloriam, o per essere più esatti a maggior gloria della «nazione eletta» da Dio. Il 1989 era l’anno in cui gli Usa conseguivano il trionfo nella guerra fredda e si apprestavano a smembrare l’Unione Sovietica, la Jugoslavia e – così essi speravano – anche la Cina. In queste condizioni ad essere incoronato come campione della pace non poteva che essere il monaco intrigante che già da trent’anni, incoraggiato e finanziato dalla Cia, si batteva per staccare dalla Cina un quarto del suo territorio (il Grande Tibet).
Nel 2009 la situazione era cambiata in modo radicale: i dirigenti di Pechino erano riusciti ad evitare la tragedia che si voleva infliggere al loro paese; invece di essere ricacciato nei decenni terribili della Cina, oppressa, umiliata e spesso condannata in massa alla morte per inedia, della «Cina crocifissa» di cui parlano degli storici, un quinto della popolazione mondiale aveva conosciuto uno sviluppo prodigioso, mentre chiari risultavano il declino e il discredito che colpivano la superpotenza solitaria che nel 1989 aveva creduto di avere il mondo nelle sue mani. Nelle condizioni che si erano venute a creare nel 2009, il Premio Nobel per la pace incoronava colui che, grazie alla sua abilità oratoria e alla sua capacità di presentarsi come un uomo nuovo e venuto dal basso, era chiamato a ridare lustro all’imperialismo Usa.
In realtà, ora il significato autentico della presidenza Obama è sotto gli occhi di tutti. Non c’è area del mondo in cui non si siano accentuati il militarismo e la politica di guerra degli Usa. Nel Golfo Persico è stata inviata una flotta, attrezzata per neutralizzare la possibile risposta dell’Iran ai bombardamenti selvaggi che Israele sta preparando febbrilmente grazie anche alle armi fornite da Washington. In America Latina, dopo aver incoraggiato o promosso il golpe in Honduras, Obama installa sette basi militari in Colombia, rilancia la presenza della IV flotta, approfitta dell’emergenza umanitaria in Haiti (la cui gravità è anche la conseguenza del dominio neo-coloniale che gli Usa vi esercitano da due secoli) per occupare massicciamente il paese, con un dispiegamento di forze che è anche un pesante avvertimento ai paesi latino-americani. In Africa, col pretesto di combattere il «terrorismo», gli Usa rafforzano in tutti i modi il loro dispositivo militare: il suo compito reale è di rendere il più difficile possibile l’approvigionamento di energia e di materie prime di cui la Cina ha bisogno, in modo da poterla strangolare al momento opportuno. Nella stessa Europa, Obama non ha affatto rinunciato all’espansione della Nato a Est e all’indebolimento della Russia; le concessioni sono formali e mirano soltanto a isolare il più possibile la Cina, il paese che rischia di mettere in discussione l’egemonia planetaria di Washington.
Sì, è in Asia che il carattere aggressivo della nuova presidenza americana emerge con particolare chiarezza. Non si tratta solo del fatto che la guerra dall’Afghanistan è stata estesa al Pakistan, con un ricorso agli arei senza piloti (e un seguito di «danni collaterali») nettamente più massiccio che ai tempi dell’amministrazione Bush jr. E’ soprattutto significativo quello che avviene nello stretto di Taiwan. La situazione stava migliorando nettamente: tra la Cina continentale e l’isola i contatti e gli scambi sono ripresi e si stanno sviluppando; si sono ristabiliti anche i rapporti tra Partito Comunista Cinese e Kuomindang. Con la nuova vendita di armi Obama vuole conseguire un obiettivo ben preciso: se proprio non si può smembrare il grande paese asiatico, almeno bisogna impedirne la riunificazione pacifica.
E’ a questo punto che annuncia il suo arrivo a Washington una vecchia conoscenza della politica di contenimento e di smembramento della Cina. Ecco entrare di nuovo in scena al momento opportuno Sua Santità che, prima ancora di mettere piede negli Usa, benedice da lontano il mercante di cannoni che siede alla Casa Bianca. Ma il Dalai Lama non è universalmente noto come il campione della non-violenza? Su questa raffinata manipolazione mi permetto di rinviare a un capitolo di un mio libro (La non-violenza. Una storia fuori dal mito), che Laterza manderà in libreria il prossimo 4 marzo. Per ora mi limito ad anticipare un elemento. Libri che hanno come autore o come coautore ex-funzionari della Cia rivelano una verità che non deve essere mai persa di vista: la non-violenza è uno «schermo» (screen) escogitato dal dipartimento dei servizi segreti statunitensi maggiormente impegnato nella «guerra psicologica». Grazie a questo «schermo» Sua Santità era immerso in un’aura sacra, mentre a lungo, dopo la sua fuga dalla Cina nel 1959, ha continuato a promuovere nel Tibet una rivolta armata, alimentata dalle massicce risorse finanziarie, dalla poderosa macchina organizzativa e multimediale e dall’immenso arsenale degli Usa, e tuttavia fallita a causa del mancato appoggio da parte della popolazione tibetana. Si trattava di una rivolta armata – scrivono sempre gli ex-funzionari della Cia – che ha consentito agli Usa di accumulare preziose esperienze per le guerre in Indocina, cioè per guerre coloniali – aggiungo questa volta io – che sono da annoverare tra le più barbare del ventesimo secolo.
Ora il Dalai Lama e Obama si incontrano. Era nella logica delle cose. Questo incontro tra i due Premi Nobel della menzogna sarà assai affettuoso come solo può esserlo un incontro tra due personalità legate tra di loro da affinità elettive. Ma esso non promette nulla di buono per la causa della pace.
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