«Oggi si dice che tante cose non si possono fare perché manca il denaro. Eppure il denaro per acquistare armi si trova, per fare le guerre si trova»: questa affermazione di Papa Francesco è stata ignorata dagli ambienti governativi italiani e occidentali, che tacciono sul fatto che la spesa militare mondiale (circa 1750 miliardi di dollari annui secondo il Sipri) è trainata da quella Usa/Nato (oltre 1000 miliardi di dollari annui, più altre spese di carattere militare).
Praticamente ignorata, negli stessi ambienti, l’affermazione del Papa che indirettamente suona come una critica al sistema capitalista: «Stiamo vivendo una terza guerra mondiale a pezzi, a capitoli», dietro cui ci sono problemi politici ed economici collegati al tentativo di «salvare questo sistema dove il Dio denaro è al centro».
Particolare rilievo è stato invece dato, a Roma e nelle altre capitali occidentali, al fatto che il Papa, giunto ad Ankara, ha espresso il proprio apprezzamento per «l’importante ruolo della Turchia nell’area mediorientale, sottolineandone in particolare l’impegno umanitario per l’accoglienza dei profughi in fuga dalle aree di conflitto» [1]. Lo stesso aveva fatto il Papa quando, ad Amman, aveva ringraziato il regno giordano per «la generosa accoglienza ai rifugiati iracheni e provenienti da altre aree di crisi, in particolare dalla vicina Siria, sconvolta da un conflitto che dura da troppo tempo», incoraggiando la Giordania a «continuare ad impegnarsi nella ricerca dell’auspicata durevole pace per tutta la regione» [2].
Tali dichiarazioni che lodano (probabilmente in base a un calcolo diplomatico) il ruolo della Turchia e della Giordania nella regione mediorientale e il loro impegno a favore dei profughi, si prestano ad essere un utile strumento nella campagna condotta dai governi e dai media occidentali per mistificare la realtà. Non a caso il presidente Napolitano, nel messaggio alla vigilia della partenza del Papa per la Turchia, sottolinea «il ruolo cruciale che Ankara è chiamata a svolgere in una regione scossa da forti tensioni e sanguinosi conflitti».
In realtà la Turchia e la Giordania costituiscono gli avamposti dell’operazione bellica Usa/Nato, il cui vero obiettivo non è la distruzione dell’Isis, funzionale a tale strategia, ma la demolizione dello Stato siriano (dopo quelli jugoslavo e libico), la riconquista dell’Iraq (eventualmente smembrandolo per poterlo meglio controllare) e in prospettiva l’attacco all’Iran. Come documentano anche inchieste del New York Times e del Guardian, in Turchia e in Giordania la Cia ha aperto centri di formazione militare in cui sono stati addestrati gruppi islamici (prima bollati da Washington come terroristi) da infiltrare in Siria, provenienti da Afghanistan, Libia e altri paesi, compresi quelli che hanno formato l’Isis in Siria e poi lanciato l’offensiva in Iraq. Le armi arrivano soprattutto via Arabia Saudita e Qatar.
In Turchia – dove la Nato ha oltre venti basi aeree, navali e di spionaggio elettronico – è stato trasferito il Landcom, il comando alleato delle forze terrestri dei 28 paesi membri, quindi anche di quelle turche, che è stato attivato a Smirne, da dove dirige le operazioni in Siria e Iraq.
In Giordania – documenta la Associated Press [3] – sono state formate, in un programma Cia di addestramento durato 2 anni, le forze ribelli appoggiate dagli Stati uniti che, operando congiuntamente con la branca di al Qaeda in Siria, stanno avanzando verso Damasco.
Provocando altre ondate di profughi che beneficeranno della «generosa accoglienza» di Turchia e Giordania.
[1] «Crocevia di incontro e dialogo», L’Osservatore Romano, 28 novembre 2014
[2] «Alla ricerca di una pace durevole», L’Osservatore Romano, 24 maggio 2014.
[3] “Rebels push forward in southern Syria”, Bassem Mroue, Associated Press, 28 novembre 2014.
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