Mentre Hezbollah accerchia la località di Madaya, autorizzando i civili a circolare ma impedendo a 600 combattenti di Al Qaeda e di Adhar al-Sham (Uomini liberi della Grande Siria, formazione armata nata nel 2011 per abbattere Bashar-al-Assad, ndt) di uscire dalla città, l’Arabia Saudita e il Qatar hanno lanciato una campagna per denunciare l’assedio della città.
Secondo Medici del Mondo, 23 persone sarebbero morte di fame. Secondo gli abitanti, invece, come a Yarmouk gli jihadisti hanno confiscato gli aiuti alimentari per poi rivenderli a prezzo esorbitante. Per autorizzare l’invio di altri convogli umanitari, il governo siriano ha posto come condizione l’accesso anche ad altre due località accerchiate dagli jihadisti, Fouaa e Kefarya. Alla fine è stato raggiunto un accordo e l’ONU ha così potuto entrare nelle tre città.
Per impedire che la falsificazione mediatica continuasse, Hezbollah ha trasmesso l’avvenimento in diretta sulla sua televisione Al-Manar. Intervistati dai giornalisti, gli abitanti hanno precisato di aver preteso che gli aiuti fossero consegnati direttamente a loro. André Chamy torna su questo episodio di guerra mediatica, che pretende di far credere che Hezbollah e la Repubblica araba siriana affamino il popolo.
Alle origini
La guerra in Siria è campo di battaglia di una guerra mediatica d’un’intensità eccezionale e di una grossolanità indescrivibile. Si è ricorsi a stratagemmi degni di un Goebbels dei nostri giorni.
Cominciamo con lo scoppio della cosiddetta “primavera siriana”, un movimento che, guarda caso, si scatenava ogni venerdì, dopo la preghiera sunnita del mezzogiorno, sebbene nelle città siriane non ci fossero stati nei giorni precedenti segni di fermento.
Ciononostante, i media erano sempre presenti, pronti a diffondere immagini e intervistare manifestanti che urlavano la loro collera, indifferentemente contro il governo, l’esercito, i servizi di sicurezza e, già che c’erano, contro gli alauiti, i drusi, i «cani cristiani» e, ovviamente, contro la famiglia Assad!
Le riprese erano fatte in modo da suscitare l’impressione che una parte considerevole della popolazione fosse pronta alla rivoluzione. I video erano poi inviati all’estero per essere manipolati e riversati nel circuito mediatico mondiale, web e televisioni.
Già alla vigilia della prima manifestazione siriana, nel Paese sono stati introdotti e distribuiti, a persone addestrate in precedenza, un migliaio di telefoni satellitari. L’operazione deve essere costata almeno un milione di dollari, somma di cui, certamente, giovani cyberattivisti disorganizzati non potevano disporre.
I video erano subito diffusi sotto un unico logo, Cham (denominazione storica della Siria), disegnato per l’occasione. I cyberattivisti coordinavano le operazioni. Interrogati sulla provenienza dei fondi, fornivano sempre la stessa, invariabile risposta: il finanziatore era un uomo d’affari della diaspora che, per ragioni di sicurezza, voleva conservare l’anonimato! [1]
Il tutto era ritrasmesso sulle varie emittenti, a cominciare dalle reti dei Paesi del Golfo, le famose Al-Jazeera del Qatar e la saudita Al-Arabiya, spalleggiate da una rete meno conosciuta, chiamata Barada [2], basata a Londra, legata al Movimento per la giustizia e lo sviluppo, una rete di oppositori siriani che nei cinque anni precedenti l’inizio della cosiddetta “primavera siriana” aveva ricevuto non meno di sei milioni di dollari dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.
Secondo il Washington Post, che attinge ai telegrammi diplomatici diffusi da Wikileaks, gli oppositori siriani hanno cominciato a essere finanziati dal 2005. E i finanziamenti non si sono interrotti nell’era Obama [3].
Le immagini e le interviste fabbricate da queste emittenti erano opportunamente diffuse da altre catene d’informazione. Internet faceva il resto. Questa massa d’informazioni non verificate e non analizzate dilagava e diventava verità.
Ricordiamo che gli stessi procedimenti erano stati sperimentati con successo durante le cosiddette “rivoluzioni multicolori”, nate dopo la caduta del Muro di Berlino.
Queste rivoluzioni sarebbero frutto della mobilitazione di giovani attivisti locali pro-occidentali. Numerosi articoli e un’inchiesta straordinaria di Camille Gangloff [4], adattata per la televisione da Manon Loizeau e Milos Krivokapic [5], dissezionando le modalità di queste rivolte, hanno invece dimostrato che erano gli Stati Uniti a muoverne i fili.
Gli stessi procedimenti sono stati utilizzati in Egitto. Lo confermano i cablogrammi diffusi da Wikileaks, in particolare quelli intitolati Richiesta di assistenza per ripristinare l’accesso dei blogger egiziani a YouTube [6] e Militanti, blogger arrestati durante un tentativo d’incursione a NagHammâdi (cittadina dell’Egitto Centro Orientale ndt) [7], che dimostrano l’implicazione dell’ambasciata degli Stati Uniti al Cairo. L’ambasciatore statunitense in carica agli inizi della crisi siriana, Robert Ford, ha agito nello stesso modo.
Quest’operazione di manipolazione, chiamata Freedom of internet (Libertà di internet), consisteva nell’alimentare e rafforzare la diffusione di software, che consentivano agli oppositori di criptare messaggi e aggirare i sistemi di censura [8].
Ovviamente, questa diffusione avveniva attraverso le diverse ONG al soldo di Washington. I giovani intellettuali mediorientali potevano così incontrarsi virtualmente, dibattere, criticare e alla fine riunirsi, nonostante le contromisure adottate dal governo del loro Paese [9].
Parallelamente, cominciava un’intossicazione mediatica. Messaggi di supposti ribelli, in realtà creati di sana pianta negli uffici della NSA (National Security Agency, Agenzia per la sicurezza nazionale, statunitense, ndt), inondavano i forum allo scopo di confortare gli oppositori autentici illudendoli di appartenere a un movimento importante, un vero e proprio maremoto, capace di travolgere il regime con l’onda della contestazione.
La seconda fase, A way to reality (Una via verso la realtà), doveva per l’appunto creare gli strumenti che permettessero di trasformare lo scontento, espresso nei vari forum, in manifestazioni reali. Si trattava della fase più delicata dell’intera operazione Domino perché, in assenza di un risveglio spontaneo delle popolazioni asservite, come accade in ogni rivoluzione, per dar fuoco alle poveri occorrevano elementi esterni.
Così entravano in azione gli stringer (membri speciali della CIA, che non fanno parte ufficialmente dell’Agenzia, spesso di nazionalità non statunitense, utilizzati per infiltrare ambienti ostili) preliminarmente addestrati all’agitazione urbana e ad arringare le folle [10].
Per preservare il carattere eminentemente segreto dell’operazione era indispensabile ricorrere esclusivamente a persone di nazionalità dei Paesi nel mirino dell’operazione Domino. Questo implicava preliminarmente un reclutamento di rifugiati negli Stati Uniti, che venivano poi formati, preparati e spediti con discrezione nei loro Paesi d’origine per compiere la loro delicata missione. Non potevano essere reclutati dissidenti troppo noti perché sarebbero stati arrestati, non appena avessero messo piede nel loro Paese d’origine.
Evidentemente, poiché il massimo dei rischi era corso da questi stringer, era necessario prevedere bustarelle di un ammontare sufficiente a far loro superare ogni timore.
L’ultima parte, la più facile, chiamata semplicemente The Recolt (La raccolta), consisteva nell’alimentare, una volta avviata la rivolta, l’entusiasmo popolare e fornire, se necessario, armi ai manifestanti. Una nuova campagna mediatica di denigrazione del regime veniva lanciata al fine di rafforzare la collera delle folle e provocare il rigetto della comunità internazionale.
Manipolazioni senza limite
Questo tipo di operazione, già ben collaudata, è stata pienamente dispiegata in Siria.
Dapprima sono state diffuse scene in cui sembrava che i soldati siriani sparassero su manifestanti pacifici e disarmati. Queste immagini sono state sfruttate soprattutto dall’allora ambasciatore statunitense a Damasco, Robert Ford.
In seguito, sono arrivate immagini di uomini armati che commettevano atrocità su soldati siriani. Queste violenze sono state legittimate sotto il pretesto che il popolo stava vendicandosi del suo boia.
A ogni assassinio veniva, in un modo o nell’altro, trovata una spiegazione conveniente. Lo scoppio di un’autobomba, soprattutto in quartieri cristiani o davanti a edifici pubblici, era subito attribuito al “regime”. Ogni spiegazione, anche la più assurda, era convalidata dai media. A quale scopo sforzarsi di capire se la messa è ormai stata celebrata e il presidente siriano deve andarsene?
Ogni giorno veniva annunciato un nuovo rinvio della caduta di Assad, rinvio che poteva andare da qualche settimana a qualche mese al massimo!
«Più la fandonia è grande, più facilmente viene creduta» ammonisce un adagio popolare!
Vengono scoperti carnai, subito imputati ai servizi di sicurezza o all’utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito. Tutto è utile a screditare il presidente Assad e le istituzioni siriane. Ora invece è noto che all’origine dell’utilizzo di queste armi ci sono soprattutto i servizi segreti turchi [11].
Nulla può fermare questa propaganda.
E come se tutto questo non bastasse, ormai da diversi giorni i media hanno messo le mani sul caso della città siriana di Madaya, alla frontiera con il Libano, dove gli abitanti starebbero per morire di fame…
Ma cosa è accaduto davvero?
Sono stati pubblicati rapporti sull’utilizzo da parte dell’Arabia Saudita in Yemen di armi a frammentazione vietate, accompagnati da informazioni martellanti sull’esecuzione da parte del regno wahhabita del leader d’opposizione, lo sceicco El-Nimr; era necessario reagire con urgenza per distogliere l’attenzione da queste notizie che puntavano il dito su un regime innominabile.
Così l’Arabia Saudita ha immediatamente mobilitato la sua catena televisiva Al-Arabiya per trasmettere appelli agli abitanti di Madaya, trascurando il fatto che anche altre località sono accerchiate dallo Stato islamico o dal Fronte Al-Nostra (Al-Qaeda), per esempio Fouaa, Kefraya, Noubble e Zohra…
Subito si è parlato di carestia, nonostante gli abitanti non ne avessero parlato ai rappresentanti dell’ONU, presenti per negoziare costantemente accordi per il passaggio di camion di alimenti e altri prodotti destinati alle località assediate dall’esercito siriano o da bande armate.
Nell’ottobre scorso, nella città di Madaya sono entrati 35 camion inviati dall’ONU, carichi di ogni genere di aiuto umanitario. Gli jihadisti si sono però impadroniti di gran parte di questi aiuti allo scopo di rivenderli alla popolazione a prezzo d’oro. Questi aiuti umanitari sono stati consegnati nel medesimo tempo a Madaya e ad altre località assediate dallo Stato islamico.
Però occorreva provocare uno choc! Le catene televisive incaricate della manipolazione hanno diffuso immagini che, a un esame minuzioso, si sono rivelate false.
Al-Jazeera ha pubblicato le foto di una bambina che, secondo un articolo del 5 gennaio scorso, starebbe morendo per consunzione.
E le foto sono a corredo di un articolo che tratta della carestia a Madaya!
Ebbene, un anno prima Al-Arabiya affermava trattarsi di una bambina siriana che viveva in Giordania, nel campo profughi di Zaatari,e vendeva chewing-gum per sopravvivere (articolo del gennaio 2014).
In un altro articolo della stessa data, il giornale on-line giordano Al-Dostour pretendeva si trattasse di una bambina palestinese che viveva nel campo profughi di Yarmouk, vicino a Damasco… per scoprire infine che questo bel visino appartiene a una piccola libanese del sud del Libano e che non c’entra nulla con i visi scheletrici cui era accostato in rete!
Un’altra foto pubblicata da Al-Jazeera e diffusa dai media benpensanti mostra un uomo scheletrico sdraiato sul selciato, presentato anch’egli come un abitante affamato di Madaya.
Si è accertato che si tratta della foto di un tossicomane ripresa da un sito internet statunitense, The Worldrace.
La settuagenaria distesa invece non si trovava in Siria e tantomeno era siriana. È una donna affetta da una grave malattia. Le sue immagini erano state diffuse su Mailone.
Queste immagini già circolavano su Twitter prima dell’assedio:
Queste e decine di altre fotografie dimostrano che la guerra delle immagini non è cessata.
I medesimi media sono arrivati al punto di stravolgere le parole del rappresentante della Croce Rossa in Siria, che ha chiaramente affermato di non poter confermare le informazioni diffuse sui social network e sui media, ossia di non aver potuto verificarne la fondatezza.
Ha precisato di avere l’obbligo di prendere sul serio ogni informazione concernente la sofferenza del popolo siriano, anche a Madaya, Fouaa o Kefraya [12]. Si è dichiarato preoccupato nella stessa misura della sorte di queste città assediate dagli jihadisti, poiché tutte hanno bisogno di alimenti e farmaci.
I media hanno invece distorto queste affermazioni, facendole passare per una conferma delle notizie sulla carestia di Madaya.
Questa campagna conferma la manipolazione mediatica in corso, accompagnata da un appello all’odio e alla vendetta contro gli sciiti e la famiglia al-Assad.
A quando la prossima campagna? E a quando un risveglio dei media occidentali che osino dire, per esempio, che «qualcuna delle immagini in rete, presentate dai media come foto scattate a Madaya, si riferisce invece a drammi anteriori. Si può perciò affermare che una piccola parte delle foto ha, per errore, una didascalia che le presenta come immagini della carestia di Madaya»? [13].
[1] Le courrier de l’Atlas. Septembre 2011. p.44.
[2] Dal nome di un fiume che scorre a Damasco.
[3] Sul finanziamento da parte della CIA, si veda “U.S. secretly backed Syrian opposition groups, cables released by WikiLeaks show”, The Washington Post, Craig Whitlock, 17 aprile 2011. Si vedano i cablogrammi di Wikileaks “Announcement to fund opposition harshly critiziced by anti-regime elements, others” (21 febbraio 2006), “Behavior reform: next steps for a Human Rights strategy” (28 aprile 2009), “Murky alliances: Muslim Brotherhood, the Movement for Justice and Democracy, and the Damascus Declaration” (8 luglio 2009), “Show us the money! SARG suspects "illegal" USG funding” (23 settembre 2009).
[4] L’Import-Export de la démocratie: Serbie, Géorgie, Ukraine, Kirghizistan. ONG étrangères et mouvements étudiants, par Camille Gangloff, L’Harmattan, 2008.
[5] Comment la C.I.A. prépare les révolutions colorées diffuso da Canal Plus con il titolo Les États-Unis à la conquête de l’Est, di Manon Loiseau e Milos Krivokapic, 51 minuti 37 secondi, 2005.
[6] “Requesting Department assistance to restore Egyptian blogger’s YouTube access”, 18 novembre 2008.
[7] “Activists, bloggers detained while attempting to visit Naga Hamadi”, January 19, 2010.
[8] Le Nouvel Obstervateur in un articolo dedicato all’opposizione siriana cita uno degli oppositori: «non invia telefoni satellitari Thraya, che possono essere troppo facilmente messi sotto ascolto, preferisce gli Iridium, più cari ma molto più sicuri. Per postare video su You Tube consiglia ai suoi contatti di utilizzare un software sicuro: You Sendt. Non rimangono tracce sul computer. Se venite arrestati, i Moukhabarat non vedranno altro che fuoco». «Syrie : les vidéos de la liberté», Vincent Jauvert, Le Nouvel Observateur del 18 maggio 2011.
[9] Il tutto è elaborato dalla “teoria dell’effetto domino”. Una strategia statunitense ideata nel XX secolo, secondo cui l’oscillazione ideologica di un Paese verso il comunismo sarebbe seguita dal medesimo cambiamento nei Paesi vicini, a causa di un effetto domino. Questa teoria è servita per giustificare l’intervento statunitense nel mondo. La “teoria dell’effetto domino” è stata per la prima volta formulata il 7 aprile 1954 dal presidente Dwight D. Eisenhower.
[10] In inglese il termine stringer designa di solito un corrispondente della stampa, che può essere sia un semplice informatore o un fotografo o un giornalista pagato al pezzo.
[11] “Obama, Erdogan, i ribelli siriani e la linea rossa”, di Seymour M. Hersh, London Review of Books , Rete Voltaire, 12 aprile 2014.
[12] «الصليب الأحمر الدولي: لا تأكيد لوجود مجاعة في مضايا ودخلتها مساعدات», Al-Manar, 8 janvier 2016.
[13] «Famine à Madaya: attention aux manipulations», Robin Cornet, RTBF, 8 janvier 2016.
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