Da sette mesi Avigdor Lieberman detta la condotta alla classe dirigente israeliana, e probabilmente continuerà a farlo nei prossimi cinque. Considerato razzista dalla stampa internazionale, Lieberman è in realtà un nazionalista pragmatico e assennato, oppositore tanto del progetto del “Grande Israele” che di quello dello Stato binazionale. Potrebbe essere la carta vincente di Mosca.
Il 14 novembre 2018 le dimissioni di Avigdor Lieberman da ministro della Difesa del governo di Benjamin Netanyahu hanno aperto in Israele una crisi politica molto grave: sono state indette elezioni legislative anticipate, il cui esito però non ha consentito la formazione di una nuova maggioranza alla Knesset (parlamento). Dopo cinque settimane di trattative non è stato possibile formare un governo, sicché sono state indette nuove elezioni il 17 settembre 2019.
Le dimissioni di Lieberman sono arrivate quando Netanyahu ha imposto un accordo con il Qatar di un cessate-il-fuoco con Hamas in cambio dell’assunzione da parte dell’emirato delle spese per la retribuzione dei funzionari di Gaza.
Non ci sono state reazioni internazionali a un accordo che richiama l’idea di una secessione di Gaza dai Territori Palestinesi e una sua annessione pura e semplice al Qatar. Secondo Lieberman l’accordo comporterà l’instaurazione di una dittatura dei Fratelli Mussulmani alle porte di Israele. Molti avevano interpretato l’accordo come premessa al “Deal del secolo” di Jared Kushner e Donald Trump. Senonché parrebbe oggi che gli Stati Uniti vogliano far passare Gaza sotto il controllo dell’Egitto, invece che del Qatar.
Durante la campagna elettorale Lieberman ha via via fatto ricorso a un insieme di nuove argomentazioni: il rifiuto dell’esenzione dal servizio militare degli studenti delle yeshivah [istituzioni educative basate sullo studio dei testi religiosi tradizionali, principalmente del Talmud e della Torah, ndr]; il rifiuto di un ordine halachico, il rifiuto della coercizione e dei privilegi religiosi. Tema non certo nuovo, che però mai aveva avuto un ruolo centrale, al punto da impedire a Netanyahu di formare un nuovo governo.
Lieberman assurse alla notorietà nel 1999, quando, come immigrato della Transnistria, raggruppò gli ebrei russofoni creando un partito politico laico, Israel Beitenu (“Israele, casa nostra”). Dopo l’emendamento Jackson-Vanik del 1974, che minacciava l’URSS di isolamento economico se avesse impedito agli ebrei di raggiungere Israele, oltre un milione di sovietici emigrarono. Questi russofoni sono legalmente ebrei, perché tutti hanno almeno un avo ebreo, ma non sono necessariamente ebrei in senso religioso, in quanto non tutti sono nati da madre ebrea. L’iniziativa di Lieberman fu finanziata da un oligarca uzbeko, Michael Cherney, vicino a Boris Eltsin.
In precedenza Lieberman era stato dipendente del Likud, di cui era direttore generale, poi capo di gabinetto del primo ministro Netanyahu, senza però ambire a cariche elettive. Questo ex buttafuori di locale notturno parla ad alta voce e con un accento russo molto pronunciato. Non manca mai di squadrare e minacciare gli interlocutori… prima di fare affari con loro.
In ottobre 2003 Michael Cherney finanziò uno strano congresso all’hotel King David di Gerusalemme [1]. L’obiettivo era l’unione dei politici israeliani russofoni, fra cui Lieberman, con i discepoli USA del filosofo Leo Strauss (in genere ex collaboratori di un coautore dell’emendamento Jackson-Vanik), nonché con i loro alleati “cristiani” (nel senso di oppositori all’ateismo comunista) negli Stati Uniti. Cherney aveva il palese appoggio dell’amministrazione Bush Jr., che voleva impedire alla minoranza russofona di cadere nell’orbita del nuovo padrone del Cremlino, Vladimir Putin. L’intera destra israeliana, cominciando da Benjamin Netanyahu, partecipò all’evento.
Il congresso sviluppò una dottrina che in seguito s’impose anche in altri ambienti, la teopolitica: la pace nel mondo è possibile solo se sarà prima realizzata in Israele, dove un governo mondiale, con sede a Gerusalemme, impedirà ogni nuova guerra. In Francia, uno degli esponenti di questa teoria è Jacques Attali.
All’epoca Lieberman non aveva problemi a rapportarsi con i religiosi, a condizione che condividessero o sostenessero il nazionalismo israeliano. Per esempio si era alleato con il partito Tkuma. Non temeva nemmeno la mescolanza di idee politiche e religiose. I suoi amici straussiani (i discepoli di Leo Strauss [2], passati per il gabinetto del senatore Jackson) sostenevano sfacciatamente che il nazismo aveva evidenziato la debolezza delle democrazie e che per prevenire una nuova Shoah gli ebrei dovevano instaurare una dittatura. I suoi amici cristiani avevano immaginato al Pentagono [3] un’alleanza di ebrei e cristiani, i «giudeo-cristiani» [4], per combattere il comunismo ateo.
Le idee di Lieberman sono note e non sono mai cambiate. Secondo lui bisogna decidere a chi essere leali. I palestinesi sono divisi fra nazionalisti palestinesi e nazionalisti islamisti (che non si battono per lo Stato palestinese, bensì per l’Umma). Non riescono a convivere fra loro, e certo non riusciranno a convivere con gli ebrei europei (nel senso che anche la Russia è europea). Formano due popoli distinti. In nome del realismo, Lieberman si oppone perciò al piano ONU di uno Stato binazionale e ritiene addirittura debba essere revocata la cittadinanza israeliana a «quegli arabi del 1948» che contestano l’esistenza d’Israele.
Per il modo aggressivo di esprimersi, Lieberman è spesso considerato razzista. Per esempio, nel 2001 si chiese se non fosse il caso di bombardare la diga di Assuan per piegare l’Egitto. Nel 2003 invece dichiarò di esser pronto a caricare i prigionieri palestinesi su un bus per portarli ad annegare nel Mar Morto. E altre trovate del genere. Sono però sbruffonate che non rispecchiano la sua ideologia. Nel 2004 affermò che il presidente Mahmoud Abbas è un «diplomatico terrorista»; nel 2008 tocca a Netanyahu essere etichettato «bugiardo, imbroglione e mascalzone».
In realtà, in qualità di ministro Lieberman ha nominato molti alti funzionari di origine etiope, oppure beduini o drusi. È convinto semplicemente che la cittadinanza contempli la lealtà verso lo Stato. Un esponente della sinistra, il capo di stato-maggiore dell’aeronautica militare, generale Eitan Ben Eliyahu, sostiene che Lieberman non è affatto estremista (a differenza di Netanyahu, sostenitore del “Grande Israele”).
Quindi il problema non è sapere se Lieberman sia o no estremista di destra, nemmeno quale sarà il suo futuro, ma quali poteri l’hanno indotto a rompere l’alleanza degli anni Novanta con Netanyahu e del 2003 con i religiosi.
Tutto questo avviene nel contesto del “Deal del secolo”, sempre annunciato, mai rivelato, però già applicato.
Il progetto Kushner-Trump mira a dirimere il conflitto israelo-palestinese attraverso lo sviluppo economico degli arabi e la presa d’atto delle loro ripetute disfatte militari. Mosca ha dichiarato «inaccettabile» ignorare il diritto internazionale. Ebbene, dopo la Conferenza di Ginevra di giugno 2012, la Russia sta tentando di affermarsi in Medio Oriente e di acquisire una sovranità su Israele condivisa con gli Stati Uniti. Lieberman è culturalmente molto più vicino al Cremlino che ai partner di Casa Bianca e Pentagono.
[1] “Vertice storico per sigillare l’alleanza dei guerrieri di Dio”, Traduzione de Ernesto Carmona, Rete Voltaire, 23 agosto 2005.
[2] The Political Ideas of Leo Strauss, Shadia B. Drury, Palgrave macmillan (1988); Leo Strauss and the Politics of American Empire, Anne Norton, Yale University Press (2005) ; The Truth About Leo Strauss: Political Philosophy and American Democracy, Catherine H. Zuckert & Michael P. Zuckert, University of Chicago Press (2008) ; Straussophobia: Defending Leo Strauss and Straussians Against Shadia Drury and Other Accusers, Peter Minowitz, Lexington Books (2009) ; Leo Strauss and the Conservative Movement in America, Paul E. Gottfried, Cambridge University Press (2011); Leo Strauss, The Straussians, and the Study of the American Regime, Kenneth L. Deutsch, Rowman & Littlefield (2013).
[3] The Family: The Secret Fundamentalism at the Heart of American Power, Jeff Sharlet, HarperCollins (2009).
[4] Storicamente i “giudeo-cristiani” formarono attorno a San Giacomo la Chiesa di Gerusalemme. Furono cacciati dalla sinagoga dopo la caduta di Gerusalemme. La corrente scomparve, a eccezione di alcuni gruppi in Medio Oriente, fra i quali quello dove nel VII secolo crebbe Maometto. Gli unici cristiani che sopravvissero furono, a Damasco, dei pagani convertiti, seguaci di San Paolo. Per diciannove secoli l’espressione “giudeo-cristiani” non ebbe più senso, essendo le due religioni distinte e in contrasto fra loro a proposito del rispetto della Legge di Mosè. Durante la guerra fredda il Pentagono riesumò l’espressione e costituì un movimento ecumenico attorno ai pastori Abraham Vereide e Billy Graham. Stranamente, nel XXI secolo si parla di “cultura giudeo-cristiana” benché questa espressione non corrisponda ad alcuna realtà.
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