Terminata la guerra contro la Siria, comincia a delinearsi il nuovo Medio Oriente. Uno scenario completamente innovato: la Siria aderirebbe alla Coalizione militare guidata dalla Russia, ponendosi di fatto sotto la sua protezione. Il Libano passerebbe sotto la tutela congiunta di Russia-Stati Uniti, ma sarebbe occupato militarmente dalla Francia. L’Iraq sostituirebbe il Libano nel ruolo di mediatore regionale. L’Iran sarebbe ammesso nell’area mediterranea.
Questo articolo è il seguito di:
− «Perché una Yalta II?», 15 giugno 2021.
− «Biden-Putin, una Yalta II piuttosto che un nuovo Berlino», 22 giugno 2021.
Mosca e Washington preparano la riorganizzazione del Levante, già abbozzata nell’incontro dello scorso 16 giugno a Ginevra, la cosiddetta Yalta II. L’intento è tirare le somme della terribile disfatta militare dell’Occidente in Siria, senza però umiliare gli Stati Uniti.
Un accordo di pace che farebbe passare la Siria in zona d’influenza russa, mentre dividerebbe il Libano fra Occidentali e russi.
I vertici di Bagdad e del Cairo
Ci si avvia verso un ritiro delle forze armate statunitensi dall’Iraq. Questo Paese dovrebbe diventare zona neutrale e assumere il ruolo di mediatore, in sostituzione del Libano. L’Iraq ha perciò convocato a Bagdad un vertice con sette vicini (Arabia Saudita, Egitto, Emirati, Iran, Giordania, Kuwait e Turchia). La Francia è riuscita a parteciparvi, sia in veste di rappresentante degli Occidentali sia in quella di ex potenza coloniale.
L’ex direttore dei servizi segreti iracheni, ora primo ministro, Mustafa Al-Kadhimi, ha dimostrato grande conoscenza dei dossier regionali e capacità di mantenere l’equilibrio tra l’Arabia Saudita, sunnita, e l’Iran, sciita. Nonostante i numerosi abboccamenti dello scorso anno e una retorica più conciliante, queste due potenze non sanno ancora come risolvere i loro molteplici contenzioni, soprattutto in Yemen.
L’incontro di Bagdad è stato l’occasione per esibire un’alleanza fra il presidente Abdel Fattah al-Sisi (Egitto) e re Abdallah II (Giordania) al fine di gestire − non risolvere − il problema palestinese. Il summit di Bagdad è stato immediatamente seguito da un vertice al Cairo dei capi di Stato di Egitto e Giordania con l’omologo palestinese, presidente Mahmoud Abbas. Costui si è mostrato più conciliante in quanto consapevole che ora più nessun Paese arabo verrà in aiuto al suo popolo: non è possibile per settant’anni pretendere giustizia, tradendo al tempo stesso chi ti viene in aiuto.
La presenza francese è stata interpretata come annuncio di un intervento militare di Parigi successivo al ritiro degli Stati Uniti. Il presidente Emmanuel Macron potrebbe ambire a inviare truppe francesi in Libano per difendere gli interessi occidentali in un Paese che passerebbe sotto tutela congiunta di Stati Uniti e Russia.
La Turchia ha temporeggiato per tutto il summit. Non vuole lasciare le regioni dell’Iraq e della Siria, da essa invase senza riscuotere contropartita dagli Occidentali. Ma al tempo stesso Ankara non desidera che i mercenari kurdi, pure alleati degli Stati Uniti, siano trattati da suoi pari. Eppure la Francia continua a immaginare che i turcomanni e i kurdi del nord della Siria potrebbero ottenere una propria forma di autonomia in seno alla Repubblica Araba Siriana. Sembra che la Russia − federazione di etnie − sia favorevole, ma che Damasco non ne voglia sapere perché le etnie che compongono la popolazione siriana sono intrinsecamente mescolate. Prima della guerra, turcomanni e kurdi non erano maggioranza in alcuna zona del Paese. Il Rojava, territorio auto-amministrato dai kurdi della Siria, non era che una facciata per mascherare la presenza militare statunitense. Gli Stati Uniti temono che il loro ritiro militare dall’Iraq susciti nei collaboratori kurdi della Siria lo stesso panico suscitato dal ritiro dall’Afghanistan nei collaboratori pashtun.
La Siria era la grande assente in un vertice brulicante d’indiscrezioni: una delegazione segreta siriana sarebbe stata vista a Washington; Mosca mirerebbe a far aderire la Siria all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC), equivalente russo della NATO.
Il summit di Bagdad è stato a tratti tormentato dalla questione degli idrocarburi nel Mediterraneo. Sono stati individuati giacimenti petroliferi e gassosi, il cui sfruttamento è ancora in gran parte impossibile: bisognerebbe innanzitutto stabilire confini mai definiti in precedenza, poi concedere autorizzazioni a società in grado di forare il fondo marino a grande profondità, infine mettere in sicurezza gli impianti. La ripartizione fra filo-statunitensi e filo-russi non è ancora stata chiaramente definita. Dipenderà dalla docilità con cui ciascuno è disposto a fondersi nel crogiuolo politico proposto.
L’impossibile caso del Libano
Il futuro del Libano non è stato discusso a Bagdad, ma comincia a delinearsi. Il Libano − che ha partecipato alla guerra contro la Siria sul versante occidentale − sarà in teoria l’unico Paese ove il Pentagono non applicherà la “guerra senza fine” della dottrina Rumsfeld/Cebrowski.
Una riforma dell’attuale legge elettorale, che divide il Paese in molteplici circoscrizioni, ognuna legata a una delle 17 comunità religiose in cui il territorio è diviso, è impresa impossibile. Cionondimeno il sistema è al capolinea e ha dato piena dimostrazione della sua impotenza. Se si dovesse adottare un sistema democratico di rappresentanza politica, Hassan Nasrallah sarebbe indubbiamente eletto presidente della repubblica e lo Hezbollah avrebbe la maggioranza in parlamento. Ma nessuno vuole una riforma elettorale.
Forse però si potrebbe trovare un accordo sulla spartizione del potere tra presidente della repubblica (cristiano), presidente dell’esecutivo (sunnita) e presidente dell’Assemblea (sciita). In questa prospettiva, il 30 luglio scorso il Consiglio Europeo ha adottato un insieme di sanzioni contro i leader politici libanesi che rifiutino ogni cambiamento strutturale. Nessuna personalità politica è stata per il momento individuata, ma l’arma è pronta all’uso.
La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che il potere è amministrativamente diviso fra tre super-comunità, ma non in parti uguali: 50% ai cristiani, 30% agli sciiti, 20% ai sunniti. Ma la composizione della popolazione è in evoluzione continua dalla guerra civile degli anni Ottanta. Per quel che si sa, oggi i cristiani non sono oltre il 20% della popolazione, i sunniti il 35% e gli sciiti il 45%. Il presidente della repubblica, il generale cristiano Michel Aoun, difende con le unghie e i denti le proprie prerogative, ossia lo storico predominio della comunità cristiana sulle altre.
La Francia pensa d’inviare un contingente in Libano in occasione delle elezioni legislative, che dovrebbero svolgersi l’8 maggio 2022, subito dopo le presidenziali francesi. I suoi soldati garantirebbero la sicurezza dei seggi elettorali. Se la situazione non cambia ci riusciranno senz’altro. Ma, alla prima riforma, chi è stato accolto con gli applausi diventerà occupante e sarà scacciato. Che bizzarra idea affidare la sicurezza di elezioni legislative all’ex potenza coloniale! Tutti ricordano che nel 1983, a Beirut, due terribili esplosioni distrussero contemporaneamente i quartieri generali delle forze francesi e statunitensi, mentre vi erano riuniti i responsabili regionali della CIA: 299 morti. Bernard Émié, direttore della DGSE (Direzione Generale per i Servizi Esteri, ndt), nonché incaricato dell’Eliseo per il Libano, ottimisticamente afferma che la guerra fredda è finita e che fatti di questo tipo non si ripeteranno mai più. La guerra fredda è certamente finita, ma la volontà d’indipendenza dei popoli no.
Senza rendersene conto, la Francia sta ponendo i presupposti del suo prossimo fiasco: il presidente Macron non fa che riecheggiare la retorica del presidente Biden: non aiuterà alcuno Stato a formarsi, ma aiuterà tutti a combattere il terrorismo. È lo slogan della Coalizione Internazionale, che da sette anni, in Iraq e in Siria, non fa che massacrare civili e orientare jihadisti. Ed è anche il discorso di cui si è servito il presidente Biden per giustificare la presa di potere dei talebani in Afghanistan e la riapparizione di Daesh. In sintesi: sono discorsi che sempre si fanno quando si vogliono devastare Stati.
I libanesi hanno costruito un sistema di corruzione non apparentato con nulla che esista altrove. I leader delle 17 comunità confessionali s’intendono a meraviglia per estorcere collegialmente quanto più denaro possibile ai rispettivi protettori. Denaro che in seguito più o meno ridistribuiscono alla propria base. Per esempio, se si vuole costruire una grande infrastruttura, è generalmente d’obbligo versare bustarelle per indennizzare le persone di cui si violano i diritti o per tenersi buoni i funzionari incaricati di verificare il rispetto delle normative locali. Non in Libano. In questo Paese per dare aiuti a una comunità bisogna indennizzare le altre 16 che non ne ricevono. Ogni aiuto deve essere pagato due volte: alla confessione destinataria e ai 16 leader delle altre comunità confessionali. Un sistema che può funzionare finché le potenze esterne sono impantanate nelle loro rivalità, ma se si mettono d’accordo è una tragedia: d’un tratto non c’è più denaro per nessuno.
Contando sul fatto che l’accordo tra Stati Uniti e Russia tenga, la Francia intende ricostruire il Libano: si terrebbe il porto di Beirut e concederebbe alla Russia quello di Tripoli (con le raffinerie). Mosca aveva proposto di ricostruire tutto in leasing, ma qualche libanese non vuole saperne dei russi e questi ultimi si rifiutano di pagare due volte. Quindi perché non prendere in considerazione la proposta francese? Ma gli israeliani pensavano che il porto di Haifa avrebbe preso il posto di quello di Beirut, perciò esigeranno la loro decima.
Comunque sia, non si può ricostruire finché non ci sarà un governo. Ma quello di Hassan Dieb è dimissionario dal… 10 agosto 2020. L’ex primo ministro Saad Hariri, interpellato per formarne uno nuovo, ha gettato la spugna. Anche l’ex primo ministro Najib Mikati, cui è stato in seguito affidato l’incarico, potrebbe a sua volta rinunciare. La difficoltà per entrambi è far fronte al presidente della Repubblica, generale Michel Aoun, che non solo non vuole rinunciare a una minoranza in grado di bloccare il governo, ma vuole altresì serbare per sé i ministeri dell’Interno e della Giustizia − per evitare ai propri accoliti di essere giudicati − nonché quelli degli Affari Sociali e dell’Economia, per aver sotto controllo le trattative con l’FMI. I sunniti vogliono dal canto loro riequilibrare le istituzioni, proteggere i propri uomini e aver accesso alla gallina dalle uova d’oro del FMI. E lo stesso vogliono gli sciiti.
La sola via d’uscita sarebbe il sacrificio di un capro espiatorio, ossia del direttore della Banca Centrale, Riad Salamé, un cristiano che si è messo al servizio della famiglia Hariri: gli sarebbe addossata la responsabilità dei crimini commessi collegialmente, nonché del fallimento del Paese, in cambio della conservazione dei privilegi della comunità cristiana.
Unica personalità fuori dai giochi (ma questo non vale per gli altri leader del suo partito), il segretario generale dello Hezbollah tenta di salvare il Paese. Hassan Nasrallah ha fatto acquistare petrolio iraniano violando le sanzioni USA pur di consentire ai libanesi di riempire i serbatoi dei mezzi di trasporto, di riscaldarsi e di lavorare. Secondo le Nazioni Unite, l’82% dei libanesi vive al di sotto della soglia di povertà, sebbene il Libano fosse ricco al punto di essere chiamato la Svizzera del Medio Oriente. L’iniziativa di Nasrallah ha immediatamente suscitato una levata di scudi da parte delle altre comunità, che non riceveranno le tangenti imposte dal sistema.
In questo momento due petroliere iraniane sono nel Mediterraneo. Gli Stati Uniti non le hanno sequestrate o colate a picco, come solitamente fanno, senza che nessuno protesti né per l’atto di guerra né per i danni ambientali. Una delegazione di senatori statunitensi, che la settimana scorsa si trovava in Libano, ha condannato in modo blando la violazione dell’embargo e lodato la proposta dell’ambasciatrice USA d’importare gas egiziano. Una delegazione ministeriale libanese si è recata a Damasco − prima visita dall’inizio della guerra nel 2011 − per discutere il progetto, dato che il gas egiziano dovrebbe transitare dalla Siria. Si è parlato altresì del progetto di acquistare elettricità dalla Giordania, che dovrebbe transitare sempre dalla Siria. E forse anche − ma non lo si può dire − dell’approdo delle petroliere iraniane al porto di Banias, invece che in Libano.
In realtà non è possibile riformare il sistema libanese fintanto che ciascuna comunità continuerà a vivere nel ricordo della guerra civile e nel timore di essere massacrata. L’unica soluzione è assicurare la pace civile e poi cambiare di colpo l’intero sistema. Potrebbe essere questa l’ambizione della Francia, che non riuscirà nell’impresa a causa del proprio passato. Altra soluzione potrebbe essere un regime militare; l’esercito è infatti l’unica istituzione che tutti i libanesi apprezzano. Ebbene, i militari si collocano nella parte più bassa della scala sociale, a un livello inferiore alle domestiche immigrate. I soldati guadagnano 60 dollari al mese, contro i 200 della servitù, pur sfruttata a piacimento. Comunque sia, il capo delle forze armate, generale Joseph Aoun − che non ha legami di parentela con il presidente −, si è formato negli Stati Uniti. Si tiene pronto.
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