Come in tutte le zone aride, il problema dell’acqua, nel Vicino Oriente, è fondamentalemente politico.
Sin dall’inizio della colonizzazione l’acqua è diventata un problema centrale nella politica israeliana di occupazione della Palestina e dell’annessione del Golan. Questo testimonia della politica discriminatoria di Tel Aviv. Vitale, l’acqua è al cuore di tutta la strategia militare e coloniale israeliana.
Il Vicino Oriente è una terra arida. Se ci si limita alle tre regioni dove il problema dell’acqua si pone in modo preponderante, Giordania, Israele e Territori palestinesi, si constata che lo sfruttamento reale delle risorse per soddisfare la domanda attuale, è molto vicino, anzi superiore, a ciò che è effettivamente disponibile.
Così, nel 1994, il consumo d’acqua in Israele supera i 2000 milioni di metri cubi l’anno, quando le risorse rinnovabili non eccedono i 1500 milioni di metro cubo l’anno.
In Giordania, il deficit d’acqua sale nel 1999 a 155 milioni di metri cubi e le falde acquifere hanno subito un sovra-pompaggio del 180%.
Il caso è ancora più netto nella striscia di Gaza che sfrutta le proprie energie rinnovabili al 217%, cosa che pone notevoli problemi, sia per la qualità dell’acqua nelle falde, che per l’avvenire, dato il rischio di disseccare queste falde, tra cui molte non rinnovabili.
Foto: Fiume vicino al Campo dei rifugiati di Al Faraa prosciugato in estate a causa del pompaggio eccessivo delle sue acque a monte da parte delle colonie israeliane
Storia
Già nel 1919, Chaim Weizman, dirigente dell’organizzazione Sionista Mondiale, scrive al primo ministro inglese Lloyd Gorge che "l’insieme del futuro economico della Palestina dipende dal suo approvvigionamento d’acqua per l’irrigazione e l’energia elettrica". I confini interessati inglobano, oltre la Palestina, il Golan e i Monti Hermon in Siria, il sud del Libano e la riva est del Giordano.
Un anno dopo, nell’ ottobre 1920, lo stesso C. Weizman scrive al segretario del Foreign Office: "Se la Palestina fosse amputata del Litani, dell’Alto Giordano e dello Yarmouk, senza neanche parlare della riva ovest del mare della Galilea (Lago di Tiberiade), non potrebbe essere economicamente indipendente. E una Palestina debole ed impoverita non sarebbe d’alcuna utilità per nessuna potenza."
Nel 1941, D. Ben Gourion dichiara: "Dobbiamo ricordarci che per radicare lo Stato ebraico, bisognerà che le acque del Giordano e del Litani siano comprese all’interno delle nostre frontiere". Ben Gurion e Moshe Dayan erano dall’inizio favorevoli ad invadere il sud del Libano fino al Litani.
Dayan proclamava nel 1954: "la sola cosa necessaria è trovare un ufficiale (libanese), anche solo un Maggiore…potremo sia convincerlo sia comprarlo perché si dichiari da sé stesso il salvatore della popolazione maronita (cristiana). In seguito l’esercito israeliano entrerebbe in Libano, occuperebbe i territori necessari ed instaurerebbe un regime cristiano che si alleerebbe con Israele. Il territorio a sud del Libano sarebbe totalmente annesso e tutto sarebbe perfetto."
Si capisce, le ulteriori invasioni del sud del Libano erano programmate da tempo!
Dal 1953, Israele comincia a deviare le acque del Lago di Tiberiade per irrigare la costa ed il Neguev, senza consultare né la Siria, né la Giordania, e preleva una parte delle acque del Giordano. Nel 1964 il National Water Carrier ( trasporto dell’acqua per canalizzazioni) ( in rosso sulla carta Passia) è operativo.
La Siria e la Giordania intraprendono allora la costruzione di barriere sullo Yarmouk e la deviazione del Baniyas per trattenere l’acqua a monte del Lago Tiberiade e impedire così ad Israele di pompare l’acqua. Israele li accusa allora di aggredirli e bombarda i lavori fino allo scoppio della guerra dei 6 giorni.
Il Libano sospetta anche Israele di pompare la sua acqua sotterranea dal bacino di Hasbani River [1].
La guerra del 1967 permette ad Israele di accaparrarsi le risorse di Gaza, della Cisgiordania e del Golan.
Nel 1978, questo Stato invade il Sud del Libano e devia attraverso il pompaggio una parte del Litani fino al 2000, data in cui si ritira, a seguito della resistenza degli Hezbollah che si forma in questa regione.
L’annessione del Golan, soprannominato il "castello d’acqua", permette il controllo del bacino d’alimentazione a monte del Giordano, e si traduce nell’espulsione della maggior parte della popolazione (100.000 persone), ciò che, allo stesso tempo, permette ad Israele di recuperare l’acqua che non è più consumata localmente.
Nel 1994, Israele e la Giordania firmano un trattato di pace con una clausola sull’acqua sfavorevole ai giordani. Con la Siria, che propone di negoziare tutto, in particolare l’acqua, contro un ritiro totale dell’occupante del Golan, le discussioni riprese nel 1999 sono bruscamente interrotte da Ehoud Barak.
Quanto agli accordi di Oslo del 1993, se riconoscono di fatto "i diritti dell’acqua dei palestinesi" rinviano il loro negoziato alle discussioni finali sullo Stato dei Territori Palestinesi.
Anche quei responsabili israeliani, cosiddetti moderati, hanno rifiutato d’impegnarsi sull’acqua secondo il protocollo di Ginevra.
La politica israeliana dell’acqua
Dal 1936, Walter Clay Lowdermilk s’ispirò ai grandi lavori, condotti allora nel Tennessee Valley negli Stati Uniti, per proporre la messa in opera di una "Jordan Valley Tennesse Authority" posta sotto sorveglianza internazionale.
Questa idea fu ripresa in gran parte dal piano Johnston per la vallata del Giordano, dal nome di un inviato del Presidente americano Eisenhower, in vista di creare un’autorità regionale nel 1954-1955, fondata su una cooperazione interstatale dei Paesi sulla riva del Giordano, al fine di assegnare e gestire al meglio le risorse d’ acqua.
La legge sull’acqua di Israele
Tuttavia Israele decise altrimenti. La sua legge sull’acqua del 1959 fa delle risorse idriche "una proprietà pubblica(…) sottomessa al controllo dello Stato." Il contenuto legale, il valore economico e sociale della proprietà fondiaria e le risorse che essa contiene, risultano allora profondamente modificate.
Ciò dà luogo ad un sistema che impedisce ai palestinesi di disporre liberamente delle proprie risorse idriche, instaurando una sistematica discriminazione.
Ma la politica messa in opera dal 1967 a Gaza ed in Cisgiordania è di un altro ordine di grandezza. Dai primi giorni dell’invasione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967, sono sancite due misure:
1 - interdizione di ogni nuova infrastruttura idrica, trivellazione e pozzi senza autorizzazione,
2- confisca delle risorse in acqua che sono dichiarate proprietà dello Stato conformemente a questa legge israeliana sull’acqua del 1959 che ha nazionalizzato la risorsa.
Per applicare la sua legge sull’acqua, Israele usa ad oltranza decreti militari: il settore principale di discriminazione è quello degli intralci imposti alle trivellazioni dei pozzi.
350 pozzi palestinesi funzionano attualmente in Cisgiordania, 23 di essi, che rappresentano il 6,5 %, sono stati scavati dall’inizio dell’occupazione, a profitto esclusivo delle colonie di ripopolamento.
Il diritto di scavare dei nuovi pozzi necessita di un permesso, rilasciato a discrezione delle autorità israeliane. Dal 1975, sono state imposte delle quote ed il loro superamento implica delle pesanti multe ( sono stati installati dei contatori): Le quote non sono aumentate che di 4 volte…
La quantità d’ acqua disponibile per gli agricoltori della Cisgiordania è gelata dal 1967: il tetto è fissato a 90-100 milioni di metri cubi all’anno per 400 villaggi. Viceversa, la quantità d’ acqua destinata alle colonie ebraiche è aumentata del 100% nel corso degli anni 1980.
Utilizzazione della "Legge degli Assenti"
Con il pretesto della sicurezza, la "legge degli Assenti" è rinforzata dalla proclamazione delle " zone o regioni speciali".
Conformemente all’ordinanza militare sulla "proprietà abbandonata", Israele prende possesso di queste terre, espropriando in tal modo un numero imprecisato di pozzi che erano utilizzati dai palestinesi che hanno subito l’esodo del 1948 e da allora considerati "assenti".
Pure, la legislazione israeliana sottomette certe regioni della Cisgiordania a delle regolamentazioni rigide: "regioni sottomesse a razionamento", "distretti di drenaggio", "regioni di sicurezza militare".
E’ il caso di una striscia di terra lungo il Giordano, dichiarata "zona militare", che i palestinesi utilizzavano per irrigare. Queste misure limitano ulteriormente l’accesso dei palestinesi all’acqua, che è acquistata ad alto prezzo - quello dell’acqua potabile - dagli agricoltori palestinesi per i bisogni dell’irrigazione.
Prima del 1967, questa pratica era sconosciuta dalle popolazioni palestinesi: per la Cisgiordania, le autorizzazioni concernenti l’utilizzo delle acque erano generalmente accordate dall’autorità giordana. Nella striscia di Gaza, nessun sistema di permesso esisteva prima del 1967 e l’utilizzo dell’acqua derivava dal diritto consueto.
Così, attraverso le ordinanze militari n° 450 e 451 del 1971, il diritto di concedere delle licenze di utilizzo dell’acqua, prerogativa del Direttore del catasto giordano, è stato trasferito alle autorità israeliane: Secondo diverse fonti, da 5 a 10 permessi sono stati concessi dal 1967.
Ugualmente, dal 1975, il rifacimento e la pulizia dei pozzi sono sottoposti ad autorizzazioni israeliane, in pratica mai accordate. Israele ha riconosciuto la sua politica di limitazione dei nuovi permessi per i palestinesi con il pretesto di un’economia dell’acqua e di miglioramenti dei metodi d’irrigazione che permettano una maggiore produttività dell’agricoltura locale!
La Mekorot
Queste pratiche discriminatorie sono istituzionali: il governo israeliano, l’Agenzia ebraica e il Fondo nazionale ebraico (FNJ) controllano la Mekorot (Compagnia di gestione israeliana) e la Tahal (Compagnia di pianificazione delle risorse in acqua di Israele), il cui l’obiettivo comune è il sostenimento esclusivo degli interessi israeliani. L’integrazione dei servizi israeliani, imponendo una centralizzazione di queste compagnie e sopprimendo la partecipazione delle popolazioni locali, pone i territori palestinesi in una situazione di dipendenza giuridica e amministrativa.
La Mekorot sviluppa dal 1967 un’erogazione di fornitura a profitto quasi esclusivo delle colonie. Lo sviluppo e la manutenzione dei sistemi municipali palestinesi sono stati abbandonati, mano a mano che la Mekorot controllava ed estendeva la propria rete di distribuzione.
Nei settori palestinesi non serviti dalla Mekorot, lo stato di mantenimento è tale che fino al 40% dell’acqua trasportata in Cisgiordania si perde lungo il percorso. Il sistema idraulico palestinese è restato al suo livello dal 1967.
A Tulkarem, queste perdite si elevano al 60%, a Ramallah al 20% e la creazione d’infrastrutture idrauliche che collegano le colonie di ripopolamento tra loro, stringe i territori palestinesi in uno stretto quadrilatero.
A Gaza, la situazione è ulteriormente più drammatica, poiché l’acquifero costiero sovra-sfruttato è adesso infiltrato da acqua marina.
Per il futuro stato palestinese, l’eventuale divisione della rete idrica sarà difficile ed onerosa.
Inegualità nell’accesso e nel prezzo
Ma non è sufficiente che la risorsa esista, bisogna anche che questa sia accessibile ed i coprifuoco e i blocchi continui portano a situazioni drammatiche.
Le distruzioni delle reti di distribuzione e delle riserve obbligano a far venire l’acqua in camion-cisterne, rincarandone il prezzo che può raggiungere fino a 40 NIS al metro cubo (più di 8 euro), o circa 10 volte il prezzo inizialmente domandato dalla municipalità.
Nei Territori Occupati Palestinesi dal 1967, le reti sono frequentemente sotto il controllo diretto dei coloni, che, quando lo desiderano, possono chiudere le paratoie di distribuzione degli avamposti in direzione dei villaggi palestinesi.
Se gli Israeliani beneficiano dell’acqua corrente tutto l’anno, i palestinesi sono vittime di tagli arbitrari, in particolare durante l’estate. Quanto al prezzo pagato da un consumatore palestinese, esso è, in principio, lo stesso che per un israeliano, quando il PIL è 20 volte più elevato in Israele che in Cisgiordania.
In realtà l’acqua è notevolmente sovvenzionata per le colonie ebraiche cosicché un palestinese deve pagare 4 volte più caro che un colono, per accedervi.
Così una famiglia palestinese può spendere centinaia di shekels al mese, quando i suoi introiti non oltrepassano i 1500 NIS mensili. (1 NIS = 0,21 euro = 1,37 FF; 1 euro = 4,7 shekels).
"L’Autorità Palestinese dell’Acqua"
In tali condizioni, "l’Autorità Palestinese dell’Acqua" che è stata creata dall’Oslo 1, faceva già una magra figura, prima di essere annullata dall’Oslo 2, poiché è Israele che gestisce i flussi.
Essa fungeva soprattutto da capro espiatorio di fronte al malcontento delle popolazioni palestinesi, e ha perso la sua ragione di essere con la distruzione sistematica delle infrastrutture (le cisterne) e l’impossibilità di controllare l’inquinamento.
Stato dei luoghi idrogeologici e ripartizione del consumo d’acqua
Il consumo medio ed annuale di un israeliano (357 metri cubi) è quattro volte superiore a quello di un palestinese della Cisgiordania (84,6 metri cubi). Il consumo domestico di un cittadino israeliano è tre volte maggiore di quello di un palestinese.
Il consumo agricolo è egualmente molto più alto, e la politica israeliana di sovvenzioni incoraggia, di fatto, un consumo elevato.
Doloroso handicap per l’agricoltura palestinese: le colonie irrigano il 60% delle loro terre coltivate, contro il 45% in Israele ed il 6% in Cisgiordania.
La legislazione descritta sopra permette ad Israele di soddisfare i suoi bisogni in acqua grazie a deviazioni che somigliano a delle vere e proprie depredazioni.
Dal 1967, la conquista del Golan ha permesso di disporre del Baniyas come delle falde e corsi d’acqua che percorrono il Mont e gli danno il suo soprannome di "castello d’acqua".
Il Golan apporta ad Israele più di 250 milioni di metri cubi d’acqua all’anno.
Il Golan e lo Yarmouk forniscono così circa un terzo del consumo totale israeliano.
Di conseguenza, il 75% delle acque del Giordano sono deviate da Israele prima che raggiungano i Territori.
In Cisgiordania, tre sorgenti forniscono un altro terzo delle riserve idriche ad Israele, che consuma circa l’86% dell’acqua della regione.
I palestinesi ne utilizzano dall’8 al 12%, e le colonie israeliane dal 2 al 5%. Dopo più di trent’anni d’occupazione, circa 180 villaggi della Cisgiordania continuano a non essere collegati ad un sistema di distribuzione.
Il controllo delle sorgenti d’acqua è nelle mani della compagnia israeliana Mekorot, che distribuisce ogni anno 110 milioni di metri cubi ai 1,5 milioni di palestinesi (circa 73 metri cubi per abitante), 30 milioni di metri cubi ai 140.000 coloni (ovvero 214 metri cubi per colono ), mentre 460 milioni di metri cubi sono diretti ad Israele.
Questa compagnia pratica non solo una distribuzione, ma anche tariffe discriminatorie. Fa pagare 0,7 $ il metro cubo per uso domestico e 0,16 $ per l’agricoltura agli israeliani, mentre non esiste prezzo differenziato per i Palestinesi che devono pagare 1,20 $ il metro cubo. Fortunatamente questa falda si rigenera facilmente grazie alle precipitazioni abbondanti.
A Gaza la superficie del territorio è ridotta e le precipitazioni scarse. Si stima che solo 35 milioni di metri cubi penetrino nel suolo per raggiungere la falda freatica. Visto l’accrescimento della popolazione (da 50000 persone prima del 1948, oggi si è passati a 1,2 milioni, con una corrispondenza di 29 metri cubi d’acqua per abitante e per anno! ), questa falda acquifera è sovra-sfruttata, ed il 70% delle sue risorse è danneggiato.
Gli israeliani pompano in modo troppo importante vicino la striscia di Gaza e prosciugano i pozzi palestinesi dove l’acqua disponibile è salmastra ed ormai inquinata. Non esiste fiume nella striscia di Gaza, ma un wadi (letto di corso d’acqua prosciugato n.d.t) che riunisce le acque di più wadi nella regione.
Gli israeliani hanno stabilito delle piccole dighe su questi wadi e la sola acqua che scende ormai nel Wadi Gaza è quella usata e non riciclata della città di Gaza. La striscia di Gaza ha, da adesso, ricevuto un certo sostegno internazionale per risolvere in parte la crisi dell’acqua (desalinizzazione, importazione d’acqua e lotta contro l’inquinamento), ma questo resta insufficiente in rapporto alla domanda locale.
Conseguenze sull’ambiente
Per i vari tipi d’uso, il consumo medio in acqua dei palestinesi in Cisgiordania a Gaza rappresenta circa 150 metri cubi a persona all’anno, quando i coloni della Cisgiordania ne consumano tra 799 e 800 metri cubi. Di conseguenza, le acque sotterranee sono state sovra-sfruttate.
Dall’occupazione in Cisgiordania e a Gaza, dal 70 all’80% delle città e dei villaggi palestinesi non ricevono che qualche ora d’acqua a settimana, obbligando la popolazione a fare delle riserve nei bidoni, anche in condizioni igieniche dubbie, mentre le postazioni militari israeliane e le colonie sono alimentate 24 ore su 24.
Queste ultime vivono come se fossero in un Paese europeo, invece la popolazione palestinese ha sempre gestito la sua acqua considerando l’aridità della regione.
In più, lo sviluppo agricolo israeliano si attua in contraddizione con le risorse in acqua disponibili. I palestinesi non hanno il diritto di scavare pozzi, mentre i coloni lo possono e a grandi profondità (300 a 500 metri).
Così, non solo è proibito ai palestinesi scavare nuovi pozzi senza autorizzazione militare israeliana, ma soprattutto i loro pozzi non devono oltrepassare 140 metri di profondità, mentre quelli dei coloni possono raggiungere 800 metri.
Aggravamento della situazione
Dalla seconda Intifada , la situazione è ancora degradata, poiché l’esercito israeliano ed i coloni attaccano in modo quasi sistematico i pozzi, impediscono ai palestinesi di accedere all’acqua e alla fine cercano di spingerli a partire. A causa di questo, il costo dell’acquisto delle cisterne d’acqua è considerevolmente aumentato, passando da 3 $ al metro cubo a 7$.
Gli elicotteri israeliani bombardano le cisterne sui tetti delle case così come i pozzi importanti, come fu il caso a Rafah.
L’acqua delle falde della Cisgiordania è rivendicata dai palestinesi, che sottolineano sia come Israele la sfrutti attraverso pozzi profondi, sia che l’80- 90% delle falde dovrebbero essergli restituite, poiché sono situate sulle colline della Cisgiordania. In più gli stessi reputano che lo Stato israeliano abbia violato la convenzione di Ginevra ( stipulando lo status quo dei suoli dei Territori occupati) scavando pozzi per i propri impianti, tanto da bloccare lo sfruttamento palestinese dell’acqua. Del resto questi pozzi avrebbero prosciugato quelli meno profondi dei villaggi tradizionali.
Per Gaza, il problema proviene dai pozzi scavati nella falda freatica. Secondo l’autorità palestinese, gli israeliani hanno pompato nelle falde, nelle immediate vicinanze della striscia di Gaza, causando così l’ attuale forte salinizzazione dei pozzi.
Aggiungiamo che il 31% delle comunità palestinesi non sono collegate: dipendenti da Mekorost, che fa ciò che vuole, esse si ritrovano spesso non alimentate, sia dal fatto che i camion cisterna vengono bloccati ai check point, sia perché l’acqua è salmastra, come a Gaza e nella falda orientale in Cisgiordania.
Il vero ruolo del Muro e la politica dell’annessione
E’ in nome di una pretesa - e illusoria - sicurezza che i governi israeliani successivi hanno rifiutato di applicare le risoluzioni dell’ONU che gli intimava di ritornare entro le frontiere del 1967 - la cosiddetta linea verde - e in particolare di rendere alla Siria l’altopiano del Golan.
In realtà, la politica dei "fatti compiuti", guidata dalla volontà conosciuta di conquista territoriale d’Israele (il sogno del "Grande Israele biblico" di certi dirigenti israeliani), ha soprattutto per obiettivo quello di mettere le mani sul 90% delle risorse d’acqua della regione, che dovrebbe essere effettivo quando il Muro sarà terminato.
Questa politica, pianificata per cacciare i palestinesi della Cisgiordania attraverso il prosciugamento dell’accesso alle loro risorse in acqua, è destinata a passare attraverso qualche piccolo rimprovero internazionale!
Che si giudichi sul terreno! Il tracciato del Muro segue una logica deliberata: massimo di terre, minimo di popolazione, in vista dell’annessione e dell’espansione futura delle colonie. Il tracciato di quest’ultimo segue accuratamente le principali colonie, ma è anche stabilito sul dominio delle migliori terre e sul recupero ottimale degli accessi all’acqua.
Separare i pozzi dalle terre porta prima di tutto a prosciugare quest’ultime, alla perdita degli investimenti e dei raccolti, poi all’abbandono e dunque al recupero da parte di Israele per via della "Legge sui terreni non coltivati".
Per esempio, nelle regioni di Qalqiliya e Tulkarem, nel giugno 2003, più del 50% delle terre irrigate sono rimaste isolate e più del 5% distrutte, 50 pozzi su 140 e 200 cisterne si ritrovano isolati o in zona cuscinetto, 30 km della rete d’irrigazione e 25 pozzi e cisterne sono state distrutti, interessando 51 comunità, ovvero più di 200.000 persone, di cui il 40% sono adesso senza risorse.
Un rapporto dell’ONU indica che, tra la firma degli accordi di Oslo nel 1993 ed il1999, 780 pozzi che fornivano acqua per uso domestico e per l’irrigazione sono stati distrutti. Quanto ai settori dove, malgrado tutto, sussiste qualche produzione, come le serre a Qalqiliya, la chiusura delle vie di comunicazione rende impossibile ogni commercio.
La chiusura dei campi di lavoro, già effettiva a Gaza da più di dieci anni, si accelera oggi con la costruzione del Muro in Cisgiordania.
A Rafah, nella striscia di Gaza, dove la demolizione sistematica di centinaia di case è stata condotta dall’esercito d’occupazione, le infrastrutture corrispondenti come le cisterne, le reti di distribuzione e riserve pubbliche sono state distrutte.
Questo è stato il caso, in particolare, all’inizio del 2003, della stazione di pompaggio di due pozzi che forniscono l’acqua al 50% degli abitanti della città. Questi due pozzi fornivano 6000 metri cubi d’acqua al giorno (di buona qualità e non salmastra) sui 13000 giornalieri consumati dai 130000 abitanti. Uno di questi due pozzi era stato costruito nel 2001 dall’Autorità Palestinese con l’aiuto dei fondi del governo canadese.
Nel marzo 2003 e dopo l’inizio della seconda Intifada, i danni nei Territori occupati sono risultati essere: 151 pozzi, 153 sorgenti, 447 cisterne, 52 cisterne mobili (tanker), 9128 cisterne da tetto, 14 riserve, 150 Km di canalizzazioni che servono più 78000 case [2].
L’avvenire?
E’ inaccettabile che Israele possa accaparrarsi la quasi totalità delle risorse idriche della regione al profitto esclusivo dei suoi cittadini - minoritari in numero.
Il fatto innegabile che le sue risorse siano insufficienti per permettere
un’utilizzazione dell’acqua simile a quella dei paesi temperati dovrebbe al contrario incitare alla ricerca di un modus vivendi dei popoli della regione.
Ora, Israele rifiuta fino ad ora ogni patteggiamento su questo argomento, tanto con l’Autorità Palestinese che con i suoi vicini, come prova la sua politica nel sud del Libano e nel Golan.
La politica internazionale dell’acqua, che era stata iniziata negli anni 50 con il Piano Johnston, è stata accantonata da Israele. Sarebbe ora che, sotto l’egida dell’ONU, si tenga una conferenza internazionale con i paesi confinanti, coscienti che il regolamento politico sulla base delle risoluzioni ONU è indissociabile dalla divisione equa dell’acqua.
E’ anche evidente che se, in Palestina, un solo paese, laico, permettesse all’insieme della popolazione di vivere sotto le stesse leggi, la risoluzione del problema dell’acqua sarebbe più facile.
Aspettando, lo status quo conduce direttamente ad una catastrofe annunciata. Ricordiamoci che, nella storia della Mesopotamia, intere civiltà sono scomparse a causa dell’ insufficienza delle risorse idriche.
Traduzione per www.comedonchisciotte.org di DRACULIA.
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