Nel 2014, l’offensiva occidentale per isolare e circondare la Russia e impedire qualsiasi possibilità di uno stato russo indipendente è entrata nel pieno. Gli USA hanno finanziato il colpo di stato in Ucraina imponendo un governo fantoccio profondamente ostile alla Russia. Il supporto della Russia per i federalisti delle regioni sud-orientali e per la Crimea è servito come pretesto per sanzioni occidentali che mirano ad indebolire il settore petrolifero e bancario russo. Gli strateghi imperiali a Washington e Bruxelles hanno rotto tutti i precedenti accordi con l’amministrazione Putin e cercato di istigare gli oligarchi suoi alleati contro di lui minacciando le loro proprietà in Occidente. Le compagnie petrolifere russe, impegnate in joint ventures con Chevron, Exxon e Total, improvvisamente sono state tagliate fuori dai mercati di capitali occidentali.
L’impatto cumulativo di questa offensiva decennale culminata nell’attuale ondata di severe sanzioni mira a provocare in Russia una recessione, indebolire la valuta (il rublo nel 2014 è sceso del 23%), far salire il costo delle importazioni e danneggiare i consumatori locali. Le industrie russe, dipendenti da equipaggiamenti e parti straniere, così come le aziende petrolifere, dipendenti da tecnologie d’importazione per lo sfruttamento delle riserve nell’Artico, sono state fatte soffrire per pagare “l’intransigenza” di Putin.
Tuttavia, nonostante i successi a breve termine della guerra di USA e UE contro l’economia russa, l’amministrazione Putin resta estremamente popolare, con percentuali di approvazione di oltre l’80%. Ciò ha relegato l’opposizione filo-occidentale a Putin nella spazzatura della storia.
Nondimeno, la politica di sanzioni e l’aggressivo accerchiamento politico-militare della Russia hanno messo in evidenza i punti deboli di Mosca.
In seguito al saccheggio compiuto dagli oligarchi occidentali e russi e il degrado selvaggio in cui era caduta la società russa negli anni ’90, il presidente Putin perseguì una strategia complessa. In primo luogo cercò di distinguere tra oligarchi “politici” ed “economici”: questi ultimi erano oligarchi disponibili a collaborare con il governo per ricostruire l’economia e a seguire le generose linee guida stabilite dal presidente; mantenevano enorme potere economico e profitti, ma nessun potere politico. Al contrario, gli oligarchi che perseguivano il potere politico e avevano finanziato i politici dell’era Yeltsin vennero colpiti: ad alcuni vennero confiscate le loro fortune e vennero perseguiti penalmente per riciclaggio di denaro, evasione fiscale, truffe e trasferimento illegale di fondi all’estero, o addirittura finanziamento di omicidio.
In secondo luogo, la strategia di Putin all’inizio perseguì una maggiore cooperazione con gli stati e le economie occidentali, ma sulla base di scambi reciproci invece delle unilaterali appropriazioni di risorse russe prevalse sotto Yeltsin. Putin cercò di assicurare una maggiore integrazione politico-militare con USA e UE per proteggere i confini e la sfera d’influenza russa. A tal fine aprì le basi militari e le linee di supporto russe alle forze militari statunitensi-europee impegnate nell’invasione dell’Afghanistan, e non si oppose alle sanzioni contro l’Iran. Putin accettò anche l’invasione statunitense dell’Iraq, nonostante i legami economici russi con Baghdad. […] Dette perfino il via libera al bombardamento NATO della Libia. Grazie alla collusione politica e diplomatica di Putin con l’espansione militare di Washington e NATO, il commercio e gli investimenti con l’Occidente prosperarono. Ditte russe ottennero prestiti nei mercati di capitali occidentali; investitori stranieri fioccarono nella borsa russa e le multinazionali formarono joint ventures. Ventures per il petrolio e il gas fiorirono. La spesa privata esplose, la disoccupazione si ridusse da due cifre a una, i salari arretrati vennero pagati e i centri di ricerca, le università e le istituzioni culturali cominciarono a riprendersi.
In terzo luogo, la strategia di Putin perseguì la ri-nazionalizzazione dei settori strategici del petrolio e del gas. Con acquisti e acquisizioni, revisioni o confische dagli oligarchi criminali, lo stato russo riuscì a riprendersi il petrolio e il gas. Questi settori ri-nazionalizzati formarono joint ventures con i giganti petroliferi occidentali e guidarono le esportazioni russe durante il periodo della massima domanda energetica. Con l’aumento del prezzo del petrolio nel decennio di Putin, la Russia visse un boom delle importazioni per consumo: dai beni agricoli ai gioielli alle auto di lusso. Putin consolidò così il suo supporto elettorale e intensificò “l’integrazione” della Russia nei mercati occidentali.
La strategia di espansione di Putin guardava esclusivamente all’UE e agli USA, non all’Asia, la Cina o l’America latina. A causa di questa attenzione verso l’Occidente, gli iniziali successi tattici di Putin cominciarono a mostrare le debolezze strategiche della Russia. I primi segni si evidenziarono nel supporto occidentale per la campagna anti-Putin portata avanti dai corrotti oligarchi, e nella demonizzazione mediatica del sistema giudiziario russo che aveva perseguito e condannato gli oligarchi criminali come Mikhail Khodorkovsky. Il secondo segno fu il supporto finanziario e politico occidentale per i neo-liberali dell’era Yeltsin che sfidavano il partito Russia Unita di Putin. Divenne chiaro che gli sforzi di Putin di restaurare la sovranità russa erano in conflitto con i piani occidentali di mantenere il paese uno stato vassallo. Nel 2010 gli USA incoraggiarono il loro burattino, il presidente georgiano Saakashvili, a invadere il protettorato russo in Ossezia del Sud. Questo fu il primo segno importante che i compromessi di Putin con l’Occidente erano controproducenti.
I confini territoriali della Russia, i suoi alleati e la sua sfera d’influenza diventarono bersagli dell’Occidente. USA e UE condannarono la risposta difensiva della Russia anche dopo che Mosca ritirò le sue truppe dopo aver dato una bella lezione alla Georgia. Quella in Georgia era stata una prova militare generale, una di numerosi golpe pianificati e finanziati dall’Occidente, alcuni soprannominati “rivoluzioni colorate”, altri “interventi umanitari”. La Yugoslavia venne frantumata dai bombardamenti NATO e l’Ucraina sperimentò diverse sollevazioni “colorate” fino all’attuale sanguinaria “guerra civile”.
Washington e Bruxelles interpretarono le mosse conciliatorie di Putin come segni di debolezza e cominciarono a violare ulteriormente le frontiere della Russia e a rovesciare i regimi ad essa alleati.
Fino alla grande decisione strategica di prendere il controllo in Ucraina, espellere la Russia dalla sua base militare sul Mar Nero in Crimea, convertire l’Ucraina in un baluardo avanzato della NATO e tagliare i suoi rapporti economici con la Russia, soprattutto il mercato strategico degli armamenti. […] Quando Putin alla fine si rese conto del pericolo per la sicurezza nazionale russa, il suo governo rispose annettendo la Crimea dopo il referendum popolare e fornendo supporto ai federalisti in Ucraina orientale. L’Occidente ha quindi sfruttato i punti deboli dell’economia russa, dovuti al modello di sviluppo di Putin, e imposto estese sanzioni studiate per menomarla.
I punti deboli della strategia economica e politica di Putin sono:
– 1) La dipendenza dagli “oligarchi economici”, orientati verso l’Occidente, per promuovere la crescita;
– 2) L’accettazione di gran parte delle privatizzazioni dell’era Yeltsin;
– 3) La decisione di privilegiare il commercio con l’Occidente, ignorando il mercato cinese;
– 4) L’aver abbracciato una strategia di esportazione di petrolio e gas, invece di sviluppare un’economia diversificata;
– 5) La dipendenza dagli oligarchi suoi alleati (che non hanno esperienza di sviluppo industriale, vera abilità finanziaria, conoscenze tecnologiche e di marketing) per ripristinare e gestire il settore manifatturiero.
Al contrario di quelli cinesi, gli oligarchi russi sono sempre stati totalmente dipendenti dai mercati, la finanza e la tecnologia occidentali, e hanno fatto poco per sviluppare mercati interni, auto-finanziarsi re-investendo i loro profitti o aumentare la produttività con la ricerca e la tecnologia. Di fronte alle sanzioni occidentali gli oligarchi alleati di Putin sono il suo punto più debole per formulare una risposta efficace. Essi fanno pressione affinché Putin la dia vinta a Washington, mentre supplicano le banche occidentali di non applicare le sanzioni alle loro proprietà e conti correnti. Cercano disperatamente di proteggere le loro proprietà a Londra e New York. In altre parole, cercano disperatamente di convincere Putin ad abbandonare i combattenti per la libertà in Ucraina sud-orientale e trovare un accordo con la giunta di Kiev. Ciò evidenzia la contraddizione nella strategia di Putin di lavorare con gli oligarchi “economici”, i quali hanno sì accettato di non opporsi al suo volere all’interno della Russia, ma hanno al contempo trasferito le loro vaste ricchezze nelle banche occidentali, investendo in case di lusso a Londra, Parigi e Manhattan e stringendo legami al di fuori della Russia. Di fatto, essi sono in stretti rapporti con gli attuali nemici politici della Russia. Il successo tattico di aver imbrigliato gli oligarchi per il suo progetto di crescita si è trasformato in una debolezza strategica ora che il paese va difeso da una paralizzante rappresaglia economica.
Il fatto che Putin abbia accettato le privatizzazioni dell’era Yeltsin ha fornito una certa stabilità nel breve termine, ma ha portato a enormi fughe di capitali all’estero, capitali che invece avrebbero potuto venire investiti per assicurare una maggiore autosufficienza. Oggi la capacità dell’economia russa di sopportare la pressione imperiale è molto minore di quanto potrebbe essere se l’economia fosse maggiormente sotto controllo statale. Non sarà facile per Putin convincere i proprietari privati delle maggiori industrie a fare sacrifici: sono troppo abituati a ricevere favori, sussidi e appalti governativi. Inoltre, con le loro controparti finanziarie occidentali che reclamano il pagamento dei debiti e negano nuovi prestiti, le elite private stanno minacciando di dichiarare bancarotta o tagliare la produzione e licenziare i lavoratori.
L’ondata di incursioni militari occidentali ai confini russi, la serie di promesse non mantenute riguardo all’espansione della NATO in Europa orientale e la distruzione della Yugoslavia avrebbero dovuto dimostrare a Putin che nessuna quantità di concessioni unilaterali avrebbe fatto accettare all’Occidente la Russia come un “partner”. Washington e Bruxelles sono rimaste irremovibili nella loro strategia di circondare la Russia e farla restare dipendente.
La Russia resisterebbe molto meglio alle sanzioni e alle attuali minacce militari se, invece di rivolgersi all’Occidente e offrire supporto alle guerre USA e NATO, avesse diversificato la sua economia, orientandola verso l’Asia, in particolare verso la Cina, con la sua dinamica crescita economica, il mercato interno in espansione, grande capacità di investimenti e crescenti competenze tecniche. Chiaramente la politica estera cinese non ha perseguito guerre e invasioni di alleati della Russia, o incursioni ai suoi confini.
Sì, la Russia ora, di fronte alle crescenti minacce della NATO, ha cominciato ad aumentare i legami economici con l’Asia, ma nel frattempo sono stati persi 15 anni. Ci vorrà un altro decennio per ri-orientare la sua economia, con le industrie principali ancora controllate da oligarchi e cleptocrati mediocri, superstiti del periodo di Yeltsin. […] Essi non hanno davvero costruito i loro imperi economici, hanno semplicemente saccheggiato il settore pubblico e ammassato la loro ricchezza tramite appalti e protezione di Stato. Mosca ora chiede loro di trovare mercati esteri alternativi, di innovare, di competere e sostituire la loro dipendenza dai macchineri tedeschi. Ma gran parte degli industriali russi non sono imprenditori, sono più simili a redditieri, che sono spesso prevalsi sui loro rivali usando la forza durante le svendite degli anni ’90. Questi oligarchi hanno cercato di diventare rispettabili e impiegano agenzie di pubbliche relazioni per dare lustro alla propria immagine, ma non hanno mai dimostrato la capacità di rendere le loro ditte competitive. Sono invece rimasti dipendenti dal capitale e dalla tecnologia occidentali, e dai sussidi dell’amministrazione Putin. Questo li differenzia grandemente dai dinamici imprenditori cinesi, sia pubblici che privati, che hanno preso a prestito la tecnologia di USA, Giappone, Taiwan e Germania, l’hanno adattata e migliorata e stanno producendo beni avanzati e molto competitivi. […]
Ma il principale punto debole della strategia economica di Putin è la decisione di affidare il “motore della crescita” alle esportazioni di gas e petrolio verso l’Occidente. Il risultato è che la Russia dipende da prezzi elevati delle materie prime e dai mercati occidentali. […]
In sintesi, la politica di Putin si è basata su di una visione di integrazione economica con l’Occidente, di pari passo con una maggiore cooperazione con le potenze NATO. Questi assunti si sono dimostrati sbagliati con gli eventi di marzo: la cooperazione di USA e UE era tattica e contingente, basata su concessioni asimmetriche e unilaterali da parte della Russia (specialmente la sua disponibilità a sacrificare i suoi alleati tradizionali nei Balcani, in Medio Oriente, Nord Africa e soprattutto nel Caucaso). Una volta che la Russia ha cominciato a difendere i propri interessi, l’Occidente è diventato ostile e conflittuale. L’attuale offensiva occidentale non è una fase transitoria: è l’inizio di un lungo e intenso conflitto economico e politico. Se da una parte la Russia è vulnerabile, dall’altra non le mancano le risorse e la capacità per resistere, difendere la sicurezza nazionale e sviluppare l’economia.
Prima di tutto la Russia deve diversificare la sua economia; deve industrializzare le sue materie prime e investire pesantemente per sostituire le importazioni dall’Occidente con la produzione locale. Spostare il commercio verso la Cina è un passo positivo, ma non deve ripetere lo stesso schema di “gas e petrolio in cambio di prodotti finiti” che ha usato in passato. In secondo luogo, la Russia deve ri-nazionalizzare le sue banche, il commercio con l’estero e le industrie strategiche, mettendo fine alle dubbie lealtà politico-economiche e al comportamento da redditieri dell’attuale classe capitalista. L’amministrazione Putin deve passare dagli oligarchi agli imprenditori, dagli speculatori che guadagnano in Russia e investono in Occidente ai lavoratori che co-partecipano; in breve, deve accentuare il carattere nazionale, pubblico e produttivo della sua economia. […]
Putin ha risollevato la Russia dall’abisso e ha instillato nei russi dignità e autostima resistendo all’aggressione occidentale in Ucraina. D’ora in poi, Putin deve andare avanti e smantellare l’intero clepto-stato erede di Yeltsin, ri-industrializzare, diversificare e sviluppare la propria alta tecnologia. Il presidente Putin ha l’appoggio della vasta maggioranza del popolo russo; ha i quadri scientifici e professionali; ha alleati in Cina e tra i BRICS; e ha la volontà e il potere per “fare la cosa giusta”. Resta da vedere se riuscirà in questa missione storica o se, per paura e indecisione, capitolerà davanti alle minacce di un Occidente pericoloso e decadente.
Traduzione: Anacronista
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