Continuiamo la pubblicazione del libro di Thierry Meyssan, Sotto i nostri occhi. In questo episodio l’esito degli eventi si capovolge. Il presidente egiziano-statunitense Mohamed Morsi viene rovesciato da gigantesche manifestazioni mentre la presa di Damasco fallisce.
Questo articolo è estratto dal libro Sotto i nostri occhi.
Si veda l’indice.
LA “PRIMAVERA ARABA” IN SIRIA
Dal 4 febbraio 2011 – giorno in cui si apre la riunione al Cairo – il coordinamento della Primavera araba in Siria viene affidato alla pagina Facebook Syrian Revolution 2011. Tale nome è sufficiente a spiegare che, nelle intenzioni, l’operazione dovrebbe rovesciare rapidamente la Repubblica araba siriana – come già accaduto per le altre “rivoluzioni colorate” –, dato che l’obiettivo non consiste nel cambiare la mentalità, ma solo il governo e alcune leggi. Il giorno stesso della sua creazione, Syrian Revolution 2011 lancia un appello a manifestare a Damasco, poi trasmesso nuovamente da Al Jazeera, mentre Facebook visualizza decine di migliaia di followers. Magie dell’informatica. L’account ricoprirà un ruolo centrale per i successivi cinque anni, dedicando ciascun venerdì – giorno di preghiera per i musulmani – a un obiettivo dei Fratelli.
Il 22 febbraio John McCain è in Libano. Incontra vari capi dell’Alleanza filosaudita del 14 Marzo, al cui deputato Okab Sakr affida la gestione del traffico di armi per gli islamisti che le aspettano in Siria [1]. Poi lascia Beirut per esplorare il confine con la Siria, scegliendo il villaggio di Arsal come base delle future operazioni.
Nonostante i ripetuti appelli della misteriosa pagina Syrian Revolution 2011, bisognerà aspettare la metà di marzo per assistere all’inizio delle operazioni in Siria. A Dara – città del sud considerata fortemente baathista – i Fratelli riuniscono ex jihadisti provenienti dall’Afghanistan e dall’Iraq, deviano una protesta di funzionari che chiedono un aumento salariale e iniziano a saccheggiare il Palazzo di Giustizia. Lo stesso giorno, sotto la supervisione di alcuni agenti del Mossad, attaccano fuori città un centro dei servizi segreti, utilizzato esclusivamente per monitorare le attività israeliane nel Golan occupato.
Riferendo della manifestazione, Al Jazeera assicura che gli abitanti di Dara hanno protestato contro la polizia che ha torturato alcuni bambini rei di aver scritto diversi slogan contro il presidente al-Assad. Il caos regna indisturbato mentre i delinquenti continuano a distruggere il centro della città. Nelle settimane successive, tre gruppi islamisti si spostano per il paese attaccando obiettivi secondari e insufficientemente difesi. La sensazione che vi siano agitazioni ovunque si diffonde in tutto il paese, benché riguardino solamente tre luoghi distinti per volta. Nel giro di poche settimane si contano più di 100 morti, perlopiù poliziotti e militari.
Il presidente al-Assad ha una reazione contraria rispetto a quella attesa: lungi dall’imporre un Patriot Act locale, abroga lo stato d’emergenza ancora in vigore – la Siria è in guerra con Israele, che occupa le alture del Golan – e scioglie la Corte di sicurezza dello Stato. In seguito approva una legge che garantisce e disciplina il diritto di protesta, denuncia un’operazione condotta dall’estero e invita il popolo a sostenere le istituzioni. Infine riunisce i capi di Stato maggiore e vieta ai soldati di usare le armi se, collateralmente, esiste il rischio di uccidere i civili.
Prendendo in parola il presidente, i Fratelli attaccano un convoglio militare a Banias – città dell’ex vicepresidente Abdel Halim Khaddam – per diverse ore, sotto gli occhi della popolazione. Per paura di ferire i civili, i soldati obbedienti al presidente non fanno uso delle armi, e così dieci di loro rimangono uccisi. Il sergente che comanda il distaccamento perde le gambe coprendo con il corpo una granata per evitare che uccida i suoi uomini. L’operazione è stata organizzata e pianificata a Parigi dal Fronte di salvezza di Khaddam e dai Fratelli musulmani. Il 6 giugno 120 agenti di polizia restano uccisi nello stesso modo a Jisr al-Shughur.
In diverse città si susseguono dimostrazioni ostili alla Repubblica araba siriana, ma, contrariamente all’immagine riflessa dai media occidentali, i manifestanti non rivendicano mai la democrazia. Gli slogan più scanditi, infatti, sono: “Il popolo vuole la caduta del regime”; “I cristiani a Beirut, gli alawiti nelle tombe”; “Vogliamo un presidente che tema Dio”; “Abbasso Iran e Hezbollah”. Diversi altri slogan invocano la “libertà”, ma non nel senso occidentale: semplicemente, i manifestanti reclamano la libertà di praticare la Sharia.
Al momento l’opinione pubblica considera fonti di informazione affidabili soltanto Al Jazeera e Al Arabiya, che hanno appoggiato i cambi di regime in Tunisia ed Egitto. È quindi convinta che, anche in Siria, il presidente si dimetterà e la Fratellanza musulmana salirà al potere. La stragrande maggioranza dei siriani assiste a ciò che crede una vera “rivoluzione” e si prepara alla svolta islamista, anche se è molto difficile quantificare il numero di siriani che dimostrano contro la Repubblica o che sostengono la Fratellanza musulmana. Al massimo si scopre che, nel paese, si svolgono centinaia di piccole manifestazioni tra cui una, la più grande, che raccoglie quasi 100 mila persone ad Hama. I suoi organizzatori vengono ricevuti a Damasco dal presidente al-Assad, che chiede loro quali siano le richieste che avanzano: “Bandire gli alawiti da Hama”, rispondono. Scioccato – lui stesso è alawita – il presidente pone fine all’incontro.
Il 4 luglio, a Parigi, i Fratelli e il governo israeliano organizzano segretamente un incontro pubblico per arruolare la classe dirigente francese. Rispondendo all’appello del “filosofo” Bernard-Henry Lévy e dell’ex e futuro ministro degli Esteri – Bernard Kouchner e Laurent Fabius – politici di destra, centro, sinistra e ambientalisti assicurano il loro sostegno a ciò che viene loro presentato come una nobile lotta per la democrazia. Nessuno si accorge della presenza in sala dei veri organizzatori: Alex Goldfarb (consigliere del ministro della Difesa israeliano) e Melhem al-Droubi (responsabile internazionale delle relazioni estere della Fratellanza, giunto appositamente dall’Arabia Saudita).
Ad agosto un Consiglio nazionale siriano viene costituito a Istanbul sul modello del Consiglio nazionale di transizione libico. Riunisce personalità che vivono da anni fuori dalla Siria, qualcuno che ha appena lasciato il paese e alcuni rappresentanti della Fratellanza musulmana. La strana idea che tale gruppo cerchi d’imporre la “democrazia” appare corroborata dalla presenza di personalità di sinistra come il professor Burhan Ghalyun, che viene proposto presidente. Costui collabora da anni con il NED e la Fratellanza musulmana: anche se laico, scrive discorsi – in particolare – per Abbassi Madani (presidente del Fronte Islamico di Salvezza algerino) da quando è in esilio in Qatar. È così anche per George Sabra e Michel Kilo, che collaborano con i Fratelli da oltre trent’anni, seguendo i trotskisti statunitensi del NED dal 1982. Sotto la direzione del libico Mahmud Gibril, Sabra lavora alle edizioni estere del programma per bambini 1, rue Sésame – prodotto dal gruppo francese Lagardère e da Al Jazeera del Qatar – con Cheryl Benard, moglie dell’ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite e successivamente in Iraq, Zalmay Khalilzad. E infine Haytham Manna, amministratore degli investimenti dei Fratelli sudanesi.
Il Qatar acquista dall’OLP la presidenza di turno della Lega araba per 400 milioni di dollari. In violazione dello statuto, fa sospendere la Repubblica araba siriana, tra i fondatori dell’organizzazione. Poi propone una missione di osservazione sul campo guidata dal Sudan –ancora governato dai Fratelli –, incaricando l’ex capo dei servizi segreti ed ex ambasciatore in Qatar, il generale Muhamad Ahmad Mustafa al-Dabi, di guidare la missione. Ciascuno Stato membro invia i propri osservatori in modo tale che tutti gli orientamenti siano rappresentati. La Repubblica araba siriana s’impegna ad accettare la Lega e lascia che la missione si dispieghi su tutto il territorio. È la prima e ultima volta che un corpo pluralista si reca sul posto, incontra tutti gli attori in causa e visita l’intero paese. Si tratta in realtà dell’unica fonte estera affidabile durante l’intero conflitto.
La nomina del generale al-Dabi viene approvata da tutte le parti all’unanimità. In passato l’uomo ha negoziato la separazione del Sudan dal Sud Sudan ed è stato indicato da molti Stati arabi come candidato al premio Nobel per la Pace. Tuttavia, dalla lettura dei rapporti preliminari risulta che il sudanese non intende scrivere un rapporto tendenzioso, ma basato su un’osservazione pluralista. Improvvisamente i media internazionali cambiano tono accusandolo del genocidio in Darfur: tutti coloro che hanno approvato la sua nomina, ne chiedono le dimissioni immediate. Ma il generale non arretra di un passo.
In sostanza viene pubblicata una relazione in cui si attesta che in Siria non è in corso alcuna rivoluzione. La missione conferma che le violenze sono state decisamente esagerate, che l’esercito si è ritirato dalle città, che non c’è repressione, che le vittime sono perlopiù soldati e poliziotti, che oltre 5 mila prigionieri – dei quali ha trasmesso i nomi alle autorità – sono stati rilasciati e che i media stranieri che ne hanno fatto richiesta hanno potuto seguire gli eventi.
Il Qatar si innervosisce e versa 2 miliardi di dollari al Sudan affinché richiami il generale al-Dabi e preclude alla Lega di designare un successore. Senza capo, la missione viene sciolta all’inizio del 2012.
Preoccupati di perdere definitivamente la Repubblica araba siriana, i Fratelli decidono di creare un Emirato islamico. Dopo diversi tentativi, il luogo scelto sarà un nuovo quartiere di Homs, Baba Amr, dove sono già stati scavati e sistemati alcuni tunnel per assicurare i rifornimenti in caso di assedio. Vi si radunano tremila combattenti, di cui duemila takfiriti siriani, membri di un sottogruppo della Confraternita, il Takfir, creato sotto al-Sadat.
Istituiscono un “tribunale rivoluzionario” che condanna a morte più di 150 residenti nel quartiere, che vengono pubblicamente sgozzati. Gli abitanti fuggono, a eccezione di una quarantina di famiglie, mentre i takfiriti creano posti di blocco in tutti i punti di accesso del quartiere, che le forze speciali francesi armano abbondantemente. La campagna terroristica del primo anno cede il passo a una guerra di posizione, secondo il piano delineato nel 2004 nel Management of Savagery. Ora gli islamisti ricevono dalla NATO armamenti più sofisticati rispetto a quelli di cui dispongono i siriani, il cui esercito è sotto embargo dal 2005.
Una mattina l’Esercito arabo siriano entra a Baba Amr, dove le difese sono state smantellate. I francesi, i giornalisti e alcuni capi fuggono per riapparire pochi giorni dopo in Libano, i takfiriti se ne vanno, la guerra sembra sul punto di finire, come in Libano nel 2007, quando l’esercito libanese sconfigge Fatah al-Islam. Ma gli islamisti non hanno ancora finito.
In Giordania si sta preparando una nuova operazione sotto il comando della NATO, che prevede l’attacco a Damasco nel contesto di una massiccia operazione psicologica. Ma viene annullata all’ultimo momento. Gli islamisti abbandonati dalla Francia a Baba Amr vengono scaricati dagli Stati Uniti, che parlano di una possibile spartizione del Medio Oriente con la Russia. Il 30 giugno 2012 si firma una promessa di pace a Ginevra.
LA FINE DELLA “PRIMAVERA ARABA” IN EGITTO
In Egitto il nuovo parlamento è dominato dalla Fratellanza, che ritiene che la nuova Costituzione – appositamente redatta per permetterne l’elezione – si limiti a ripetere un vecchio testo leggermente modificato, benché sia stata approvata tramite referendum con il 77% dei voti a favore. Designa quindi un’assemblea costituente di 100 membri, di cui 60, questa volta, sono Fratelli.
I Fratelli sottolineano che i giovani democratici possono sfidare il potere dell’esercito, che la loro campagna presidenziale è la giusta occasione per invocare la rigenerazione del paese con il Corano. Yusuf al-Qaradawi, ad esempio, sostiene che sia più importante contrastare gli omosessuali e ritrovare la fede che combattere contro Israele per il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese [2].
Durante le elezioni l’astensione sunnita è stata massiccia e la Fratellanza ne ha impedito lo svolgimento nelle città e nei villaggi cristiani, in modo che 600 mila elettori non abbiano potuto votare.
Tuttavia, i risultati del voto hanno attribuito al generale Ahmad Shafiq, ex primo ministro di Mubarak, la vittoria con un leggero vantaggio di 30 mila voti. A questo punto la Fratellanza minaccia i membri della Commissione elettorale e le rispettive famiglie, finché non si decide – dopo 13 giorni – di proclamare la vittoria del Fratello Mohamed Morsi [3]. Chiudendo gli occhi, la “Comunità internazionale” accoglie con favore il carattere democratico delle elezioni.
Mohamed Morsi è un ingegnere della NASA con cittadinanza statunitense e nulla-osta del Pentagono. Al suo insediamento inizia a riabilitare il proprio clan e a rafforzare i legami con Israele, poi riceve nel Palazzo presidenziale gli assassini di al-Sadat nell’anniversario della sua esecuzione. Nomina governatore del distretto Adel Mohammed al-Khayat, uno dei capi di al-Gama’at al-Islamiyya (il gruppo responsabile del massacro di Luxor del 1997). Perseguita i democratici che hanno dimostrato contro alcuni orientamenti della politica di Hosni Mubarak – non per le dimissioni –, supporta il pogrom dei Fratelli musulmani contro i cristiani e ne copre i crimini: linciaggi, aggressioni agli arcivescovi, chiese incendiate. Allo stesso tempo privatizza le grandi imprese e annuncia la possibile vendita del Canale di Suez al Qatar, che al tempo sponsorizza la Fratellanza. Dal suo avvento al palazzo presidenziale, contatta telefonicamente almeno quattro volte Ayman al-Zawahiri, capo supremo di Al Qaida.
In definitiva, si mette tutti contro. Tutti i partiti politici, tra cui i salafiti – a eccezione, naturalmente, della Fratellanza – dimostrano contro di lui, 33 milioni di cittadini scendono in piazza per chiedere che l’esercito restituisca il paese al popolo. Insensibile alla piazza, il presidente Morsi ordina all’esercito di prepararsi ad attaccare la Repubblica araba siriana per andare in aiuto alla Fratellanza musulmana siriana. È l’ultima goccia.
Il 3 luglio 2013, mentre a Washington chiudono gli uffici per il lungo weekend della festa nazionale, l’esercito attua il colpo di Stato. Mohamed Morsi viene imprigionato, mentre le strade si trasformano nel campo di battaglia tra i Fratelli e le loro famiglie da un lato e le forze dell’ordine dall’altro.
LA GUERRA CONTRO LA SIRIA
Secondo un modo di dire francese, “in politica le promesse impegnano soltanto chi ci crede”. Un mese dopo la conferenza di Ginevra 1 e la firma della pace – e pochi giorni dopo la Conferenza degli “Amici della Siria” a Parigi – la guerra è nuovamente autorizzata. Non si tratterà più di un’azione della NATO assistita dagli ausiliari jihadisti, ma di un’aggressione jihadista assistita dalla NATO. Il nome in codice è “Vulcano di Damasco e terremoto della Siria”.
Sono 40 mila gli uomini che, addestrati in Giordania, attraversano il confine e si precipitano nella capitale siriana, mentre un attentato uccide i partecipanti a una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale. L’esercito e i servizi segreti sono decapitati.
I jihadisti sono mercenari reclutati tra i miserabili del mondo musulmano, spesso non parlano arabo e hanno ricevuto un addestramento militare di una sola settimana. Alcuni credono di combattere gli israeliani, subiscono perdite considerevoli e si ritirano.
La lunga guerra che segue oppone l’Esercito arabo siriano – che cerca di difendere la popolazione civile e, a tale scopo, deve ripiegare sulle città principali – e i jihadisti il cui obiettivo è rendere la vita impossibile in vasti territori. I combattenti vengono rimpiazzati all’infinito, ogni mese ne arrivano di nuovi che sostituiscono quelli rimasti uccisi o che hanno disertato. In un primo momento, tutte le canaglie del mondo musulmano corrono a tentare la sorte per poche centinaia di dollari al mese. Vengono aperti al pubblico uffici di reclutamento in paesi come Tunisia e Afghanistan, mentre sono più discreti in altri come Marocco o Pakistan. Tuttavia il tasso di mortalità dei terroristi resta incredibilmente elevato. Nel luglio 2013, secondo l’Interpol, operazioni di fuga molto sofisticate vengono attuate in nove Stati per far fuggire i capi islamici e trasferirli in Siria.
Per esempio:
– 23 luglio, 500-1.000 detenuti evadono dalle carceri di Taj e Abu Ghraib (Iraq).
– 27 luglio, 1.117 detenuti fuggono dal carcere di Kouafia (distretto di Bengasi, Libia) a seguito di una rivolta unita a un attacco esterno.
– La notte del 29-30 luglio 243 talebani scappano dalla prigione di Dera Ismail Khan (aree tribali del Pakistan).
L’Esercito arabo siriano brucia la maggior parte dei corpi dei terroristi, ma conserva i resti di chi riesce a identificare per restituirli alle famiglie. Diversi Stati istituiscono di nascosto canali per il rimpatrio, come l’Algeria con la Fondazione Abdelkader; tuttavia, l’Esercito arabo siriano conserva più di 30 mila cadaveri identificati ma non reclamati.
Gli Stati occidentali che hanno inizialmente inviato sul posto forze speciali impiegando i propri soldati con doppia nazionalità – generalmente musulmani del Maghreb – organizzano i propri canali di reclutamento jihadista. Così, in Francia, viene creata una filiera tra le prigioni e le moschee salafite: queste migliaia di persone vanno a sommarsi alle decine di migliaia del “Grande Medio Oriente”. Anche se non sappiamo con precisione quante persone parteciperanno alla guerra, si stima che i jihadisti in Siria e Iraq, locali e stranieri, dal 2011, siano in totale oltre 350 mila: più di qualsiasi esercito regolare dell’Unione Europea e due volte l’Esercito arabo siriano alla fine della guerra.
L’unità ideologica dei jihadisti è garantita dal “leader spirituale dell’Esercito siriano libero”, lo sceicco Adnan al-Aroor. Tale personaggio – assai particolare – raggiunge un vasto pubblico ogni settimana con il suo show televisivo, infiamma gli animi esortando a rovesciare il tiranno e propone una visione patriarcale e autoritaria della società. Gradualmente passa agli appelli settari per fare strage di cristiani e alawiti. Sottufficiale dell’Esercito arabo siriano, viene arrestato per aver stuprato delle reclute, poi fugge in Arabia Saudita, dove diventa uno sceicco al servizio di Allah.
I jihadisti di solito ricevono un armamento basilare e un numero illimitato di munizioni. Sono organizzati in katiba, piccole unità di poche centinaia di uomini i cui capi sono armati con attrezzature ultra-sofisticate, tra cui i kit di comunicazione che consentono di ricevere in tempo reale le immagini satellitari degli spostamenti del nemico. È quindi una battaglia asimmetrica con l’Esercito arabo siriano, sicuramente molto meglio addestrato ma che combatte con armi ante-2005 e senza informazioni satellitari.
A differenza dell’Esercito arabo siriano, le cui unità sono coordinate e sottoposte all’autorità del presidente Bashar al-Assad, tra le katiba jihadiste non cessano le tensioni interne, come su tutti i campi di battaglia in cui rivaleggiano i “signori della guerra”. Tutti, però, ricevono i loro rinforzi, armi, munizioni e informazioni da un solo Stato maggiore, cui sono quindi costretti a obbedire. Tuttavia gli Stati Uniti fanno molta fatica a gestire questo sistema, perché molti attori intendono condurre operazioni di nascosto rispetto agli altri alleati, come i francesi all’insaputa degli inglesi o il Qatar a scapito dei sauditi.
Una volta che un territorio viene abbandonato dall’Esercito arabo siriano, i jihadisti che lo occupano vi si trincerano per costruirvi tunnel e bunker. I sauditi avevano inviato il miliardario Osama bin Laden in Afghanistan perché era un esperto di lavori pubblici, così aveva supervisionato la costruzione di gallerie tra le montagne o, più precisamente, l’allargamento dei fiumi sotterranei. Questa volta gli ingegneri civili della NATO supervisionano la costruzione di gigantesche linee di difesa.
(segue…)
La traduzione italiana del libro è disponibile in versione cartacea.
[1] “Un deputato libanese dirige il traffico di armi in Siria”, Traduzione di Alessandro Lattanzio, Rete Voltaire, 10 dicembre 2012.
[2] Global Mufti: The Phenomenon of Yusuf Al-Qaradawi, Bettina Graf & Jakob Skovgaard-Petersen, Hurst (1999); Hamas and Ideology. Sheikh Yūsuf al-Qaraḍāwī on the Jews, Zionism and Israel, Shaul Bartal and Nesya Rubinstein-Shemer, Routledge (2018).
[3] “La Commissione elettorale presidenziale egiziana cede al ricatto dei Fratelli Mussulmani”, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 25 aprile 2016.
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