Dopo essersi tenuta relativamente lontana dalla scena internazionale, la Turchia ora sta tracciando la propria via. Pur continuando a far parte dell’Alleanza Atlantica e del suo comando integrato, Ankara vuole affermare la propria indipendenza. Non riceverà ordini né dall’Alleanza Atlantica né dall’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTCS). Sul piano interno, sebbene si definisca un Paese mussulmano, la Turchia vuole integrare le minoranze su base nazionale, ma combattere gli elementi subordinati agli Stati Uniti.
La Turchia sta cambiano e le proiezioni di George Friedman, fondatore di Stratfor, si rivelano errate. Se l’antico Impero Ottomano riprenderà a crescere non sarà perché vassallo degli Stati Uniti.
Invece che giudicare in base agli stereotipi occidentali e prenderci gioco del “nuovo sultano”, dobbiamo capire in che modo la Turchia, “l’uomo malato dell’Europa”, stia cercando di recuperare il ritardo culturale sulla modernità e risollevarsi dalla disfatta della prima guerra mondiale, pur senza negare la propria specificità storica e geografica. Infatti, passato un secolo, la strada indicata da Atatürk non ha sbocco e i problemi sussistono.
Paragonandone la dottrina a quella della democrazia-cristiana europea, abbiamo creduto che l’AKP avrebbe fatto della Turchia una democrazia islamica inclusiva. La Turchia ha gradualmente riannodato i legami con la grandezza ottomana che fu, diventando portavoce del mondo mussulmano. Sostenuta dagli Stati Uniti essa era vocata a diventare una potenza economica di primo rango. Proseguendo sulla via della modernizzazione e dell’occidentalizzazione, ha voltato le spalle prima al suo principale cliente, la Libia, e poi al suo partner economico, la Siria, schierandosi sempre più con l’Occidente.
Il tentativo del 15 luglio 2016 a Marmaris di uccidere il presidente da poco rieletto Erdoğan, sfociato in un abborracciato tentativo di colpo di Stato miseramente fallito, ha rovesciato la situazione. Nei successivi tre anni l’AKP ha cercato di elaborare questa folle corsa. Si è lanciato in un’introspezione della propria politica. La messa in scena del terzo anniversario del colpo di Stato gli è servita per mettere in chiaro le proprie posizioni.
In primo luogo, contrariamente a quanto credevamo di aver compreso, la moderna Turchia non sta dalla parte né dell’Occidente né dell’Oriente. Si ritiene un Paese a cavallo di due mondi, per metà asiatico per metà europeo. Un dato di fatto che né l’adesione all’Alleanza Atlantica né la partecipazione alle guerre occidentali della “Primavera araba” scalfiscono.
La dimostrazione è l’acquisto del sistema anti-aereo russo S-400. Ankara rivendica il diritto sia di far parte della NATO sia di acquistare armamenti dai suoi avversari, puntualizzando, a ragione, che i testi non lo vietano, né autorizzano altri a sanzionarla.
Più che mai i turchi sono “i figli del lupo delle steppe” che conquistarono l’Asia e parte dell’Europa. I negoziati di Astana (Russia-Iran-Turchia) per la pace in Siria vanno interpretati alla luce di queste considerazioni; così pure le dichiarazioni antimperialiste della delegazione turca alla Conferenza dei Paesi non allineati di Caracas.
In secondo luogo, la Turchia fonda il piano per la sua indipendenza economica sul progetto energetico del Turkish Stream e le esplorazioni petrolifere nelle acque territoriali di pertinenza esclusiva di Cipro. Questo è, con ogni evidenza, il punto debole. Alcuni tronconi del gasdotto russo-europeo che passa dalla Turchia sono già operativi. Ma la Commissione Europea, pressata degli USA, ha sempre facoltà di opporvisi; l’entità degli investimenti non peserà sulla bilancia più del Nord Stream 2. Infine, secondo il diritto internazionale la Turchia non può vantare alcun diritto sulle acque territoriali cipriote; inoltre, il sostegno dello Stato fantoccio della Repubblica Turca di Cipro del Nord è nullo e non avvenuto.
In questa cornice deve essere collocato l’annuncio del ministro degli Esteri, Mevlüt Çavuşoğlu, della sospensione dell’accordo con l’Unione Europea per l’immigrazione; annuncio immediatamente seguito al versamento da parte dell’Unione della contropartita annuale di due miliardi di euro.
In terzo luogo, la Turchia rompe con il modello finanziario anglosassone. A iniziare dalla guerra dell’Occidente contro la Libia, e ancor più dalla guerra, sempre occidentale, contro la Siria, il tenore di vita dei turchi è progressivamente crollato. Ankara ha perciò bruscamente deciso di riprendere le redini della propria banca centrale e di abbassare il tasso d’interesse dal 24% al 19,75%. Nessuno sa quali saranno le conseguenze economiche di simile decisione.
In quarto luogo, diversamente dal periodo inclusivo 2002-2016, essere turco è oggi possibile per le minoranze etniche, ma non per gli individui che si sono alleati con lo straniero. Dopo il colpo di Stato, una purga gigantesca ha estromesso dall’esercito e dall’amministrazione tutti i sospettati di intrattenere legami di subordinazione agli Stati Uniti; in particolare i discepoli di Fethullah Gülen (rifugiato in Pennsylvania). Centinaia di migliaia di cittadini sono stati messi in prigione. Non è ricominciata la guerra contro la minoranza kurda, bensì contro i kurdi alleati di Washington.
Diversamente da come lo percepiamo, Erdoğan non è un mitomane che impone una dittatura: ricorre alla violenza per imprimere una nuova rotta al Paese.
In quinto luogo, la Turchia si definisce uno Stato mussulmano rispettoso delle minoranze. Per esempio, il presidente Erdoğan ha posato la prima pietra di una chiesa siriaca a Istanbul: scelta incompatibile con il cieco sostegno alla Confraternita dei Fratelli Mussulmani e al suo progetto di Califfato. La “solidarietà mussulmana” è un’illusione di per sé priva di significato: si deve – come nel caso dell’Iran – innanzitutto stabilire verso quale “islam” essere solidali. Già adesso la Turchia ha modificato il proprio atteggiamento non sostenendo più con tanta fermezza i mussulmani dello Xinjiang cinese.
Attualmente, l’esercito turco occupa Cipro del Nord, conduce una guerra in Iraq, Siria e Libia, e si dispiega attorno all’Arabia Saudita: in Qatar, Kuwait, Sudan e Mar Rosso. Un attivismo in ogni direzione che non può durare, tanto più che cozza sia contro Israele sia contro l’Alleanza Atlantica.
Tutto questo apre nuove prospettive, non gradite dagli Stati Uniti. Già ora l’ex ministro turco dell’Economia, Ali Babacan, e l’ex primo ministro Ahmet Davutoğlu si sono alleati con l’ex presidente della repubblica, Abdullah Gül. Quest’ultimo, che per le elezioni legislative aveva rinunciato a rivaleggiare con il suo ex partner Erdoğan, ritiene che la disfatta dell’AKP alle elezioni amministrative – in particolare a Istanbul – schiuda la possibilità di scongiurare l’instaurazione di una dittatura. Con l’aiuto della CIA, Babacan e Davutoğlu stanno tentando di organizzare una dissidenza all’interno dell’AKP. Per Langley la posta in gioco è rivitalizzare per via elettorale l’obiettivo mancato con il fallito tentativo del 2016 di assassinare il presidente Erdoğan.
«Se non ci si sente delusi da loro, da chi si dovrebbe esserlo?», ha dichiarato il presidente Erdoğan.
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