Le forze armate israeliane si apprestano alla pulizia etnica nella Striscia di Gaza, realizzando il vecchio sogno dei suprematisti ebrei. Ma in Israele e negli Stati Uniti molti cittadini vi si oppongono ritenendolo un crimine. Intanto in Medio Oriente molti volontari si preparano a salvare i palestinesi attaccando lo Stato ebraico.
Al contrario della percezione che abbiamo di questo conflitto, non è la malafede dei protagonisti a impedirne da 76 anni la risoluzione, ma l’impossibilità di scelta tra due sistemi: tra un mondo “fondato sulle regole” e quello basato “sul Diritto internazionale”.
Questo articolo è il seguito di:
• “In Palestina cambia il paradigma”, 10 ottobre 2023:
• “La censura militare israeliana vi nasconde la verità”, 19 ottobre.
La preparazione del crimine
Gli avvenimenti in Israele-Palestina precipitano. Tutti stanno a guardare Israele prepararsi alla pulizia etnica della Striscia di Gaza. Secondo il bilancio delle Nazioni Unite di venerdì scorso, un terzo delle abitazioni della città di Gaza è già stato ridotto in cenere. Quasi tutti gli abitanti della città sono fuggiti verso sud, senz’altra alternativa che accamparsi alla bell’e meglio.
Dopo aver valutato la possibilità di lanciare un’offensiva antiguerriglia sull’esempio della Battaglia di Algeri o dell’Operazione Phoenix in Vietnam, lo stato-maggiore israeliano intende radere al suolo la città di Gaza e successivamente mandare l’esercito a eleminare i sopravvissuti. Secondo Tsahal la realizzazione del piano richiederà tre mesi.
Il capo di stato-maggiore israeliano, generale Herzl Halevi, il 21 ottobre ha dichiarato: «Entriamo nella Striscia di Gaza per compiere una missione operativa e professionale: distruggere gli agenti e le infrastrutture di Hamas (…) Gaza è complessa e satura, laggiù il nemico sta preparando molte cose, ma anche noi ci stiamo preparando per lui».
Il 14 ottobre l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è insorta contro l’ordine degli israeliani di evacuare gli ospedali di Gaza facendo notare che spostare malati dalla terapia intensiva significa condannarli a morte [1]. Tre giorni dopo l’ospedale Al Ahli è stato distrutto. Israeliani e palestinesi si rimpallano la responsabilità del massacro. Del resto nessun alleato di Israele ha cercato di portare aiuto agli abitanti di Gaza, sebbene gli Stati Uniti, la Germania e il Regno Unito abbiano ospedali da campo, medicinali e cibo che potrebbero far arrivare a Gaza in aereo. Anzi, invece di aiutare una popolazione in pericolo questi tre Paesi si preparano ad aiutare le forze armate israeliane.
Gli Stati Uniti hanno rifornito Tsahal con migliaia di proiettili d’artiglieria da 155 millimetri e un numero imprecisato di bombe a penetrazione Joint Direct Attack Munition (JDAM), che possono penetrare da 30 a 40 metri sottoterra e distruggere tutto nel raggio di 400 metri.
Israele diviso
Per mesi ci sono state manifestazioni gigantesche contro i suprematisti ebraici, alleati di Benjamin Netanyahu, e contro la riforma delle leggi fondamentali per subordinare il potere giudiziario al potere esecutivo. Non è servito. Il “colpo di Stato” è avvenuto la scorsa estate.
Con la locuzione “suprematisti ebraici” mi riferisco al partito Potere Ebraico (Otzma Yehudit), erede dichiarato del movimento statunitense Lega di difesa ebraica (Jewish Defense League) del rabbino Meir Kahane; organizzazione che a suo tempo si oppose a ogni contatto con l’Unione Sovietica e oggi con la Russia. Esortava a uccidere i neonazisti e assassinò il direttore dell’American-Arab Anti-Discrimination Committee. Potere Ebraico è esplicitamente razzista e si oppone al matrimonio tra ebrei e goïm (non-ebrei); negli Stati Uniti è classificata organizzazione terrorista dal 2001. Venne finanziata segretamente da Yitzhak Shamir con denaro dello Stato d’Israele [2].
Ma che divina sorpresa! L’attacco della Resistenza palestinese unita (con l’eccezione di Fatah) del 7 ottobre ha fornito l’occasione ai suprematisti ebraici di realizzare il loro obiettivo tante volte enunciato: pulizia etnica della Palestina dagli arabi palestinesi, o con l’evacuazione forzata o con il loro sterminio.
Di fronte all’emozione degli israeliani e al pericolo che minaccia lo Stato ebraico, il primo ministro Netanyahu ha formato un governo d’emergenza, come hanno fatto tutti i suoi predecessori in casi analoghi. Tuttavia, laddove, allo scoppio della guerra dei Sei giorni, servirono alcune ore a Golda Meier, a Netanyahu sono occorsi sette giorni dall’operazione Diluvio di Al-Aqsa. E per tenere a bada i suprematisti ebraici ha costituito in seno al governo un consiglio di guerra.
Ma questo gruppo ristretto governativo è stato teatro, sin dalla prima riunione, di uno scontro tra i fautori della distruzione di Gaza e quelli di un’operazione mirata contro la Resistenza palestinese. La maggior parte dei ministri si sono accontentati di evocare, in pubblico, un’azione contro Hamas; la censura militare impedisce infatti di dare conto delle azioni compiute dalle altre fazioni palestinesi. Il ministro della Difesa, generale Yoav Gallant, ha attaccato sia l’attuale primo ministro, che giudica un esaltato, sia il predecessore, generale Benny Gantz, che giudica un debole. A giugno il primo ministro aveva vietato al ministro della Difesa di entrare nel suo ufficio al quartier generale delle forze armate, divieto tuttora in vigore. Gallant si rifiuta di lavorare con il responsabile militare della riparazione delle infrastrutture, generale Roni Numa. Netanyahu ha perciò nominato un alto funzionario con il medesimo incarico di Numa, Moshe Edri, che però dipende dal ministro suprematista ebraico delle Finanze, Bezalel Smotrich; non ha però previsto, tantomeno regolato, le relazioni tra militari e civili. Ricordiamo che due settimane fa il generale Numa ha diretto manifestazioni contro il primo ministro. Ha inoltre depositato un ricorso giudiziario contro le «riforme» che, a giusto titolo, definisce «colpo di Stato». Inoltre diversi ministeri-chiave (Sicurezza nazionale, Educazione, Informazione, Intelligence e Cultura) non hanno direttori generali. La censura militare, che nasconde questo disordine, è tale che in piena guerra la ministra dell’Informazione, Distel Atbaryan, ha lasciato il governo sbattendo la porta.
Prima della guerra i riservisti affermavano in blocco che non avrebbero obbedito a ordini criminali del governo antidemocratico del loro Paese. Oggi sono stati mobilitati e nessuno sa quale sarà il loro compito. Netanyahu ha visitato alcuni di loro per assicurarsene la fedeltà. Per il momento la fanteria e la cavalleria (carri) israeliane sono posizionate alla frontiera di Gaza e a quella del Libano, in attesa di ordini che non arrivano. Nel frattempo l’aeronautica bombarda la città di Gaza con un’intensità mai vista. Secondo le Nazioni Unite, almeno un terzo dell’agglomerato urbano è stato ridotto in macerie.
Gilard Erdan, ambasciatore d’Israele all’Onu, si dà da fare come può per ottenere da tutte le agenzie dell’Organizzazione e da tutti gli Stati membri la condanna di Hamas. Se nei primi giorni della guerra veniva ben accolto, ora incontra sempre maggiori difficoltà a far capire il punto di vista d’Israele.
La Resistenza divisa
Mentre la Resistenza palestinese di Gaza è riuscita a ricompattarsi, grazie ai colloqui organizzati a inizio anno in Libano dall’Iran, il Fatah del presidente Mahmoud Abbas continua la politica di collaborazione con Israele e non si fa scrupolo di affermare con tutti gli interlocutori di essere l’unico non-complice dei Fratelli Mussulmani (ossia di Hamas).
In questo modo Abbas spera di restare il solo interlocutore frequentabile per gli Occidentali, al prezzo però d’immediata perdita di autorità morale sui palestinesi, in particolare su quelli della Cisgiordania. Così, quando il presidente Biden, di fronte alle manifestazioni che scuotevano la Giordania, ha annullato il vertice da egli stesso convocatovi, cui avrebbe partecipato anche il presidente Abbas, quest’ultimo si è rifiutato di parlargli al telefono. La polemica suscitata dalla distruzione di un ospedale a Gaza ha opportunamente consentito di mascherare gli errori dell’Autorità palestinese, che non sa più come comportarsi. Ha recentemente sanzionato un membro del Comitato centrale di Fatah, Abbas Zaki, colpevole di aver elogiato l’operazione Diluvio di Al-Aqsa e di essersi rammaricato per la mancata partecipazione di Fatah.
Hamas è a sua volta diviso tra i fautori della Resistenza palestinese e quelli dell’islam politico che si trovano all’estero. Mentre i suoi soldati combattono impetuosamente, Khaled Meshal, presidente dell’ufficio politico, pur ringraziando lo Hezbollah libanese perché mantiene parte dell’esercito israeliano in costante allerta alla frontiera con il Libano, gli ha rimproverato di non fare abbastanza. Lo scopo di Meshal (uccidere gli israeliani) non coincide con quello dello Hezbollah (vincere lo Stato d’Israele) né con quello dei suoi stessi combattenti di Hamas.
Gli Stati Uniti divisi
Il presidente statunitense Biden è andato in Israele per assicurargli il sostegno di Washington. Non ha incontrato i ministri suprematisti ebrei, ma ha partecipato a un consiglio di guerra durante il quale si è detto consapevole che gli israeliani devono farla finita con Hamas e ha garantito la fornitura di proiettili d’artiglieria da 155 mm, nonché di bombe a penetrazione… ma ha chiesto loro di dare prova di moderazione. Le affermazioni ambigue di Biden sono state interpretate dai fautori della pulizia etnica come un via-libera all’operazione, dagli altri invece come un ordine di contenersi.
Negli Stati Uniti gli ebrei pacifisti hanno manifestato davanti al Congresso. La polizia del Campidoglio, memore dell’assalto dei trumpisti, li ha duramente repressi. Ne ha arrestati 500, che rischiano di essere portati in giudizio.
Il 18 ottobre un alto funzionario del dipartimento di Stato, Josh Paul, si è dimesso in malo modo, accusando l’amministrazione Biden di non avere una politica propria e di sostenere di fatto la pulizia etnica che Israele prepara. Josh Paul non è personaggio di secondo piano: dopo una brillante carriera al servizio del segretario alla Difesa, Robert Gates, nonché al Congresso, per 11 anni è stato direttore dell’ufficio degli Affari politici e militari. Era lui a validare ogni trasferimento di armi.
Trainati dall’esempio di Josh Paul, 441 assistenti parlamentari si sono riuniti in un edificio adiacente al Campidoglio per denunciare l’avventatezza dell’amministrazione Biden e dei membri delle due assemblee parlamentari. Josh Paul è ebreo vicino a J Street, lobby filoisraeliana anti-Netanyahu; gli assistenti parlamentari in rivolta provengono invece sia dalla minoranza ebraica sia da quella mussulmana. Non contestano la lotta agli islamisti politici di Hamas, ammoniscono dal commettere un genocidio. Sono tutti perfettamente consapevoli che la loro presa di posizione li espone al licenziamento.
I funzionari del dipartimento di Stato, qualunque sia il loro grado gerarchico, possono esprimere disaccordo su un forum dedicato. In genere si limitano a criticare gli abusi di un capo-servizio. Ora invece discutono del fallimento morale dell’amministrazione Biden, che ignora il parere dei suoi collaboratori. Le mail più virulente sono state firmate da molti colleghi dello stesso ufficio, sicché le proteste hanno dato origine a un ammutinamento [3].
Mitch McConnell, capo della minoranza repubblicana del senato, ha presentato una proposta di risoluzione finalizzata a impedire l’aiuto urgente a Israele di 14,3 miliardi di dollari, chiesto dal presidente Biden.
Tim Scott (Repubblicano, Carolina del Sud), candidato alle primarie presidenziali, ha annunciato di rifiutarsi di votare per Israele. È il capo dei Repubblicani della Commissione senatoriale per le banche, l’alloggio e gli affari urbani.
La posizione attendista dei vassalli degli Stati Uniti
I vassalli degli Stati Uniti persistono ad allinearsi ubbidientemente alle posizioni di Washington. Una riunione a porte chiuse del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stata occasione di uno stupido scontro tra la rappresentante permanente degli Stati Uniti, Linda Thomas-Greenfield, e l’omologo russo, Vassily Nebenzia. Nonostante i due Paesi in passato abbiano risolto di comune accordo numerose crisi mediorientali, l’attuale tensione tra Stati Uniti e Russia ha indotto Washington a ricorrere al veto.
All’ordine del giorno della riunione c’era la proposta russa di un cessate-il-fuoco umanitario immediato. L’ambasciatrice statunitense ha accusato la Russia di proteggere Hamas perché il testo non ne conteneva la condanna. Ma, a partire da Henry Durant e dalla fondazione della Croce Rossa internazionale, per principio le azioni umanitarie non devono schierarsi nel conflitto in cui intervengono. Benché scioccati dai commandos di Hamas o dai bombardamenti israeliani, non si deve condannare né l’uno né l’altro, né le loro azioni; si devono soltanto soccorrere le vittime. Ma adottando una posizione morale miope, invece che umanitaria o politica, Washington condanna indiscriminatamente: non le azioni barbare, ma alcuni individui che le commettono.
Francia, Giappone e Regno Unito hanno preso posizioni allineate a quelle del sovrano statunitense. Per la prima volta dal 1976 la Francia ha fatto ricorso al diritto di veto, firmando così il via-libera al genocidio in preparazione. La riunione si è svolta a porte chiuse, quindi le Nazioni Unite non hanno diffuso alcun resoconto, ma l’ambasciatore Nicolas de Rivière l’ha ammesso; eppure il quotidiano Le Monde l’ha negato.
Il Guardasigilli francese, Éric Dupont-Moretti, ha scelto il medesimo atteggiamento: ha sottolineato che sostenere i suprematisti mussulmani di Hamas significa appoggiarne le azioni terroristiche, quindi esporsi alla condanna fino a cinque anni di prigione. È vero, ma sostenere i suprematisti ebrei che stanno distruggendo la città di Gaza significa commettere lo stesso reato. In un primo momento la Francia ha vietato le manifestazioni filo-palestinesi, ma il Consiglio di Stato ha abrogato la disposizione perché vìola il diritto costituzionale di manifestare le proprie opinioni.
In una successiva seduta il Consiglio di sicurezza ha respinto anche la proposta di risoluzione del Brasile che, sposando la versione ufficiale, condannava Hamas quale unico autore dell’attacco del 7 ottobre. Questa volta sono stati Russia e Regno Unito a respingerla. Alla fine il Consiglio non ha adottato alcun testo.
Nel contempo il Qatar è riuscito a ottenere la liberazione da parte di Hamas di due ostaggi israelo-statunitensi, in cambio del passaggio di 20 camion di aiuti umanitari, di sette camion-cisterna di carburante, nonché di altri impegni non rivelati. Prima della guerra passavano non meno di 100 camion al giorno. La questione dello scambio di prigionieri si complica: dall’inizio della guerra le forze di sicurezza israeliane hanno arrestato e rinchiuso in prigioni di alta sicurezza altri 1.070 palestinesi.
Abu Oubaida, portavoce delle Brigate Izz el-Deen al-Qassam, ha dichiarato che Hamas era disposto a liberare altri due ostaggi, ma che Israele non ha accolto la proposta.
Dopo il presidente statunitense è arrivato in Israele il primo ministro britannico Rishi Sunak, portando il sostegno del Regno Unito alla risposta israeliana all’attacco di Hamas. Le Difese del Regno Unito e d’Israele sono legate da un Trattato firmato due anni fa, i cui termini però non sono mai stati resi pubblici.
A Londra 100.000 cittadini hanno sfilato per tentare di dissuadere il governo dal sostenere il crimine che Israele sta preparando. In risposta, il Jewish Leadership Council ha radunato alcune migliaia di persone a Trafalgar Square.
Anche il primo ministro italiano, Giorgia Meloni, ha compiuto il suo pellegrinaggio a Tel Aviv. A breve sono attesi il presidente cipriota Níkos Christodoulídis, il presidente francese Emmanuel Macron e il primo ministro ad interim olandese Mark Rutte.
Celebrando la messa domenicale, papa Francesco ha dichiarato: «La guerra, ogni guerra che c’è nel mondo penso anche alla martoriata Ucraina è una sconfitta. La guerra è sempre una sconfitta, è una distruzione della fraternità umana. Fratelli, fermatevi! Fermatevi!»
Il Medio Oriente vuole salvare i palestinesi
Al Cairo si è svolta, per iniziativa del presidente egiziano Abdel Fatah Al-Sisi, una conferenza internazionale per la pace. Vi hanno partecipato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres; il presidente del Consiglio europeo Charles Michel; l’alto rappresentante dell’Unione, Josep Borrell; il re di Giordania Abdallah II; il presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas; il presidente degli Emirati Arabi Uiniti, Mohamed Ben Zayed; il re del Bahrein, Hamad ben Issa al-Khalifa; il principe ereditario del Kuwait, sceicco Meshal al-Ahmad al-Sabah; il primo ministro iracheno, Mohammad Shia el-Soudani; il presidente cipriota Nidos Christodoulídis; la presidente del consiglio italiana, Giorgia Meloni; il capo del governo spagnolo, Pedro Sánchez; il primo ministro britannico, Rishi Sunak; il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis. Complessivamente vi erano rappresentati trenta Stati. Ma non hanno partecipato al vertice gli Stati Uniti, la Cina, la Russia e, soprattutto, Israele.
L’emiro del Qatar, Tamin ben Hamad Al Thani, è arrivato aureolato della liberazione degli «ostaggi statunitensi» ma, vista la posizione anti-Hamas degli Occidentali, non ha pronunciato alcun discorso.
Il presidente algerino, Abdelmadjid Tebboune, ha declinato l’invito. A ottobre 2022 l’Algeria aveva organizzato una conferenza per l’unità del popolo palestinese in cui aveva emendato la risoluzione della Lega araba sottolineando di dissociarsi dal «due pesi e due misure» che non stabilisce una gerarchia tra i diritti dei palestinesi e le violazioni che ne fa Israele.
Antonio Guterres ha dichiarato che l’attacco del 7 ottobre «mai potrà giustificare una punizione collettiva del popolo palestinese».
Mahmoud Abbas ha dichiarato: «Non ce ne andremo, resteremo sulle nostre terre».
L’Egitto si rifà alla posizione della Lega araba del 1969: accogliere nuovi rifugiati palestinesi significherebbe rendersi complici della pulizia etnica della loro patria storica. Una posizione intellettualmente giusta, ma che maschera malamente il timore di un’invasione palestinese come quella che a suo tempo subirono Libano e Giordania. All’epoca i palestinesi avevano tentato di prendere il potere con le armi a Beirut (la guerra del Libano), poi a Amman (Settembre nero) e di stabilirvi lo Stato di Palestina.
In sostanza il vertice non è servito a nulla: tutti sono rimasti sulle loro posizioni. Da un lato quelli che volevano condannare Hamas, dall’altro quelli che volevano sostenere la Resistenza palestinese, di cui Hamas è la componente principale.
In Medio Oriente numerose organizzazioni riuniscono volontari per salvare i palestinesi e attaccare Israele. I Guardiani della Rivoluzione iraniani tentano di organizzare uno stato-maggiore comune che unisca i combattenti palestinesi di Hamas, dell’FPLP e della Jihad islamica, poi i combattenti libanesi di Hezbollah, del PSMS della Jamaa Islamiya, nonché giordani e iracheni.
Perché non si riesce a risolvere questo conflitto?
La divisione generalizzata in tutti i campi rende impossibile prendere decisioni. Sebbene sembri improbabile che Israele metta le forze armate al servizio del progetto genocida dei ministri suprematisti ebraici, il tempo non è alleato della pace. Nel frattempo, mentre ogni campo cerca la propria posizione, la fitta pioggia di bombe continua a cadere su Gaza e le armi continuano ad arrivare a Israele. Si contano già 1.300 morti israeliani e 4.137 palestinesi.
L’impossibilità di risolvere il conflitto israelo-palestinese non è dovuta alla malafede israeliana. In realtà siamo tutti complici: l’impedimento dimostra la stupidaggine del «mondo fondato sulle regole» che il presidente statunitense, Franklin D. Roosevelt, e il primo ministro britannico, Winston Churchill, tentarono di creare nel 1942-45 e che accettammo alla caduta dell’URSS. Questo mondo funziona sulla base delle regole decretate dagli anglosassoni, ora rese esplicite dal G7. Il segretario generale del PCUS, Joseph Stalin, e il capo del governo francese in esilio, Charles De Gaulle, imposero invece un «mondo fondato sul Diritto internazionale». Un mondo dove gli Stati sovrani sono tenuti a rispettare solo i Trattati che firmano. Le Nazioni Unite furono istituite su questo principio. Dobbiamo tornare al testo fondatore, la Carta di San Francisco. Se applicata al conflitto attuale, innanzitutto Israele dovrebbe rispettare la firma apposta in calce alla lettera di adesione all’Onu; l’Autorità palestinese dovrebbe rispettare la firma degli Accordi di Oslo.
[1] «Les ordres d’évacuation adressés par Israël aux hôpitaux du nord de Gaza sont une condamnation à mort pour les malades et les blessés», Organisation mondiale de la Santé, 14 octobre 2023.
[2] The False Prophet: Rabbi Meir Kahane, From FBI Informant to Knesset Member, Robert I. Friedman, Lawrence Hill Books (1990).
[3] «Exclusive: ‘Mutiny Brewing’ Inside State Department Over Israel-Palestine Policy», Akbar Shahid Ahmed, Huffington Post, October 19, 2023.
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