Signor Presidente,
Onorevoli deputati del Parlamento europeo,
Un anno fa mi sono presentato a voi e vi ho detto che lo stato della nostra Unione non era buono. Vi ho detto che non c’è abbastanza Europa in questa Unione. Vi ho detto che non c’è abbastanza Unione in questa Unione.
Non intendo oggi presentarmi a voi e dirvi che tutto va nel migliore dei modi.
Non è così.
Dobbiamo tutti essere molto onesti nella nostra diagnosi.
La nostra Unione europea sta vivendo, almeno in parte, una crisi esistenziale.
Nel corso dell’estate ho ascoltato con attenzione quello che avevano da dirmi i deputati di questo Parlamento, i rappresentanti dei governi, i molti parlamentari nazionali e i normali cittadini europei.
Sono stato testimone di molti decenni di integrazione europea. Molti sono stati i momenti forti. Molti sono stati, ovviamente, anche i momenti difficili, e i momenti di crisi.
Ma mai prima d’ora ho visto così poca intesa tra i nostri Stati membri. Così pochi settori in cui sono disposti a collaborare.
Mai prima d’ora ho sentito così tanti leader parlare unicamente dei loro problemi interni, senza menzionare l’Europa o citandola solo di passaggio.
Mai prima d’ora ho visto i rappresentanti delle istituzioni dell’UE definire priorità completamente diverse, talvolta in aperto contrasto con i governi e i Parlamenti nazionali. È come se non vi fosse più alcuna interazione tra l’UE e le sue capitali nazionali.
Mai prima d’ora ho visto i governi nazionali così indeboliti dalle forze del populismo e paralizzati dalla paura della sconfitta alle prossime elezioni.
Mai prima d’ora ho visto così tanta frammentazione, e così poca condivisione nella nostra Unione.
È tempo di fare una scelta importante.
Vogliamo scegliere di abbandonarci ad un sentimento di frustrazione, che può essere naturale? Vogliamo permetterci di cadere collettivamente in depressione? Vogliamo consentire che la nostra Unione si disgreghi davanti ai nostri occhi?
O dovremmo piuttosto chiederci: Non è questo il momento di riprendere coraggio? Non è questo il momento di rimboccarci le maniche e raddoppiare, triplicare i nostri sforzi? Non è questo il momento in cui l’Europa ha bisogno più che mai non di politici che abbandonano la nave ma di una leadership che mostri determinazione?
Le nostre riflessioni sullo stato dell’Unione devono iniziare con senso di realismo e con grande onestà.
In primo luogo, dovremmo ammettere che in Europa abbiamo molti problemi irrisolti. Su questo non ci sono dubbi.
Dagli elevati livelli di disoccupazione e di disuguaglianza sociale alla massa ingente di debito pubblico, dall’enorme sfida dell’integrazione dei rifugiati alle minacce più che concrete alla nostra sicurezza interna ed esterna: ogni singolo Stato membro è stato colpito dalla perdurante crisi che caratterizza i nostri tempi.
Siamo persino chiamati a dover far fronte alla prospettiva poco felice dell’uscita dai nostri ranghi di uno di noi.
In secondo luogo, dovremmo essere consapevoli che il mondo ci guarda.
Sono appena tornato dal vertice del G20 in Cina. L’Europa occupa ben 7 posti al tavolo di questo importante consesso mondiale. Nonostante la nostra forte presenza, le domande sono state più numerose delle nostre risposte comuni.
L’Europa sarà ancora in grado di concludere accordi commerciali e di definire le norme economiche, sociali e ambientali per il mondo?
L’economia europea potrà finalmente imboccare la strada della ripresa o invece è condannata anche nel prossimo decennio a bassi livelli di crescita e di inflazione?
L’Europa rimarrà leader mondiale nella lotta per i diritti umani e i valori fondamentali?
L’Europa riuscirà a parlare con una sola voce, quando è minacciata l’integrità territoriale, in violazione del diritto internazionale?
O invece l’Europa sparirà dalla scena internazionale e lascerà che siano gli altri a dare forma al mondo?
So che voi in quest’Aula sareste quanto mai disposti a dare risposte chiare a queste domande. Ma dobbiamo anche fare in modo che le parole siano seguite dall’azione comune. Altrimenti rimangono quello che sono: parole. Solo con le parole non è possibile definire le questioni internazionali.
In terzo luogo, dovremmo ammettere che non possiamo risolvere tutti i nostri problemi con l’ennesimo discorso. Con l’ennesimo vertice.
Qui non siamo negli Stati Uniti d’America, dove il Presidente pronuncia il discorso sullo stato dell’Unione dinanzi a entrambe le Camere del Congresso e milioni di cittadini seguono in diretta televisiva ogni sua parola.
Al contrario, qui in Europa il discorso sullo stato dell’Unione mostra molto chiaramente il carattere incompleto della nostra Unione. Oggi sono qui a tenere il mio discorso dinanzi al Parlamento europeo. E venerdì incontrerò separatamente i leader nazionali a Bratislava.
Per questo il mio discorso non può puntare soltanto a ottenere il vostro applauso, ignorando quanto i leader nazionali diranno venerdì. Nè posso andare a Bratislava con un messaggio diverso da quello che oggi condivido con voi. Devo tener conto di entrambi i livelli di democrazia della nostra Unione, entrambi egualmente importanti.
Noi non siamo gli Stati Uniti d’Europa. La nostra Unione europea è molto più complessa. E ignorare questa complessità sarebbe un errore che ci porterebbe a soluzioni sbagliate.
L’Europa può funzionare solo se i discorsi a favore del nostro progetto comune sono pronunciati non solo in questa onorevole Aula ma anche nei Parlamenti di tutti i nostri Stati membri.
L’Europa può funzionare solo se lavoriamo tutti per l’unità e la condivisione, dimenticando le rivalità tra competenze e istituzioni. Solo così l’Europa potrà essere più della somma delle sue parti. E solo allora l’Europa potrà essere più forte e migliore di oggi. Solo allora i leader delle istituzioni dell’UE e dei governi nazionali saranno in grado di riconquistare la fiducia degli europei nel nostro progetto comune.
Perché gli europei sono stanchi delle dispute, degli scontri e dei diverbi interminabili.
Gli europei vogliono soluzioni concrete al problema estremamente pertinente che la nostra Unione deve affrontare. Non vogliono solo promesse, risoluzioni e conclusioni al termine dei vertici. Ne hanno sentite e viste troppe.
Gli europei vogliono decisioni comuni seguite da un’attuazione rapida ed efficace.
Sì, abbiamo bisogno di una visione a lungo termine. E la Commissione presenterà questa visione del futuro in un Libro bianco nel marzo 2017, in tempo per il 60º anniversario della firma dei trattati di Roma. Illustreremo come rafforzare e riformare la nostra Unione economica e monetaria. E terremo anche conto delle sfide politiche e democratiche che la nostra Unione a 27 dovrà affrontare in futuro. Naturalmente il Parlamento europeo sarà strettamente associato a questo processo, al pari dei Parlamenti nazionali.
Ma la visione, da sola, non basta. I nostri cittadini hanno soprattutto bisogno di qualcuno che governi. Di qualcuno che affronti le sfide del nostro tempo.
L’Europa è una corda con tanti fili: funziona solo se tiriamo tutti in insieme nella stessa direzione: le istituzioni europee, i governi e i parlamenti nazionali. Dobbiamo dimostrare ancora una volta che è possibile, in alcuni specifici settori in cui è più urgente trovare soluzioni comuni.
Propongo pertanto un programma positivo di azioni europee concrete per i prossimi dodici mesi.
Perché penso che i prossimi dodici mesi saranno determinanti se vogliamo ridare unità alla nostra Unione. Se vogliamo superare la tragica divisione tra Est e Ovest emersa negli ultimi mesi. Se vogliamo dimostrare che possiamo essere rapidi e risoluti sulle questioni che contano veramente. Se vogliamo dimostrare al mondo che l’Europa è ancora una forza capace di azione comune.
Mettiamoci al lavoro.
Questa mattina ho inviato una lettera con questo messaggio al Presidente Schulz e al Primo Ministro Fico.
I prossimi dodici mesi sono di cruciale importanza per dare vita ad un’Europa migliore:
un’Europa che protegge;
un’Europa che preserva il modo di vivere europeo;
un’Europa che dà forza ai cittadini,
un’Europa che difende, sia al proprio interno che all’esterno; e
un’Europa che si assume responsabilità.
UN’EUROPA CHE PRESERVA IL NOSTRO MODO DI VIVERE
Sono convinto che il modo di vita europeo meriti di essere preservato.
Ho l’impressione che molti sembrano aver dimenticato cosa significa essere europei.
Cosa significa far parte di questa Unione di europei, cosa accomuna il contadino della Lituania e la ragazza madre di Zagabria, l’infermiera de La Valletta o lo studente di Maastricht.
Ricordare perché le nazioni dell’Europa hanno scelto di lavorare insieme.
Ricordare perché il 1º maggio 2004 la gente si è riversata nelle strade di Varsavia per celebrare la solidarietà.
Ricordare perché il 1º gennaio 1986 la bandiera europea sventolava orgogliosa a Puerta del Sol.
Ricordare che l’Europa è una forza trainante che può contribuire alla riunificazione di Cipro: in questo i due leader ciprioti hanno tutto il mio sostegno.
Sopra ogni cosa Europa significa pace. Non è un caso che il più lungo periodo di pace nella storia scritta dell’Europa sia iniziato con la creazione delle Comunità europee.
Settant’anni di pace duratura in Europa, in un mondo che è teatro di 40 conflitti armati attivi in cui ogni anno muoiono 170 000 persone.
Naturalmente continuiamo ad avere le nostre differenze. È vero. Spesso non la pensiamo allo stesso modo. Talvolta ci scontriamo. Ma ci scontriamo a parole. E risolviamo i conflitti intorno ad un tavolo, non in trincea.
Il nostro modo di vita europeo è indissociabile dai nostri valori.
I valori della libertà, della democrazia e dello Stato di diritto. Valori per cui ci siamo battuti per secoli, sui campi di battaglia e dalle tribune delle assemblee politiche.
Noi europei non possiamo mai accettare che lavoratori polacchi siano maltrattati, picchiati o addirittura uccisi nelle strade di Harlow. La libera circolazione dei lavoratori è un valore europeo comune al pari della lotta contro la discriminazione e il razzismo.
Noi europei siamo fermamente contrari alla pena di morte. Perché crediamo nel valore della vita umana e lo rispettiamo.
Noi europei crediamo anche nell’indipendenza e nel buon funzionamento dei sistemi giudiziari.L’indipendenza dei giudici garantisce il controllo della condotta di governi, imprese e singoli. Il buon funzionamento dei sistemi giudiziari favorisce la crescita economica e la difesa dei diritti fondamentali. Per questo l’Europa promuove e difende lo Stato di diritto.
Essere europei significa anche essere aperti agli scambi con i nostri vicini, invece di far loro la guerra. Significa essere il primo blocco commerciale del pianeta, che ha accordi commerciali in vigore o in fase di negoziazione con più di 140 partner in tutto il mondo.
E scambi commerciali significano occupazione: ogni miliardo di euro di esportazioni genera nell’UE 14 000 nuovi posti di lavoro. Oggi più di 30 milioni di posti di lavoro nell’UE, ossia 1 su 7, dipendono dalle esportazioni verso il resto del mondo.
Per questa ragione l’Europa opera per l’apertura dei mercati assieme al Canada: uno dei nostri partner più stretti, che condivide i nostri stessi interessi e valori, che come noi rispetta lo Stato di diritto e coltiva la nostra stessa nozione di diversità culturale. Quello tra l’UE e il Canada è il migliore accordo commerciale finora negoziato dall’UE, il più progressista. Intendo perciò lavorare con voi e con tutti gli Stati membri per vederlo ratificato il più presto possibile.
Essere europei significa avere diritto alla protezione dei propri dati personali mediante rigorose leggi europee. Perché agli europei non piace essere sorvolati da droni che registrano ogni loro movimento, né vogliono che le imprese tengano traccia di ogni loro click in rete. Per questa ragione il Parlamento, il Consiglio e la Commissione hanno concordato, nel maggio di quest’anno, un regolamento sulla protezione comune europea dei dati. Si tratta di una rigorosa normativa europea sul trattamento dei dati personali che si applica alle imprese, ovunque abbiano sede. Perché in Europa ci teniamo alla riservatezza. Si tratta di una questione di dignità umana.
Essere europei significa anche parità di trattamento.
Ciò significa che i lavoratori dovrebbero ricevere la stessa retribuzione per lo stesso lavoro svolto nello stesso luogo. Si tratta di una questione di giustizia sociale. È per questo che la Commissione sostiene energicamente la proposta di direttiva sul distacco dei lavoratori. Il mercato interno non è un luogo in cui i lavoratori dell’Europa orientale possono essere sfruttati o soggetti a standard sociali più bassi. L’Europa non è il Far West, ma un’economia sociale di mercato.
Parità di trattamento significa anche che in Europa i consumatori sono protetti dai cartelli e dagli abusi delle imprese potenti. E che ogni impresa, non importa se grande o piccola, deve pagare le tasse dove realizza gli utili. Ciò vale anche per giganti come Apple, anche se il loro valore di mercato è superiore al PIL di 165 paesi. In Europa non accettiamo che imprese potenti ottengano sotto banco trattamenti fiscali illegali.
Non ci interessa il livello di tassazione che un paese come l’Irlanda decide di applicare. L’Irlanda ha il diritto sovrano di fissare il livello di tassazione come intende. Non è giusto però che un’impresa possa evadere tasse che andrebbero a beneficio di famiglie e imprese, scuole e ospedali irlandesi. La Commissione vigila su questo tipo di equità. Si tratta dell’aspetto sociale della normativa sulla concorrenza. Europa significa anche questo.
Essere europei significa anche una cultura che protegge i nostri lavoratori e le nostre imprese in un mondo sempre più globalizzato. Come le migliaia di persone che rischiano di perdere il posto di lavoro a Gosselies in Belgio: è grazie alla normativa dell’UE che l’impresa dovrà ora impegnarsi in un vero dialogo sociale. I lavoratori e le autorità locali possono inoltre contare sulla solidarietà europea e sul sostegno dei fondi UE.
Essere europei significa anche battersi per la nostra industria siderurgica. Abbiamo già 37 misure antidumping e antisovvenzioni per proteggere l’industria siderurgica europea dalla concorrenza sleale. Ma occorre fare di più, perché la sovrapproduzione in alcune parti del mondo sta portando al fallimento i produttori europei. Proprio per questo, per affrontare il problema della sovraccapacità, quest’anno sono andato due volte in Cina. È anche per questo che la Commissione ha proposto di modificare la regola del dazio inferiore. Mentre gli Stati Uniti impongono un dazio del 265% all’importazione di acciaio cinese, qui in Europa alcuni governi insistono da anni che i dazi sull’acciaio cinese devono essere ridotti. Invito tutti gli Stati membri e questo Parlamento a sostenere la Commissione nel proposito di rafforzare i nostri strumenti di difesa commerciale. Va bene il libero scambio, ma senza ingenuità: al pari degli Stati Uniti dobbiamo essere capaci di rispondere al dumping con determinazione.
Un elemento importante del nostro modo di vivere europeo che intendo preservare è il settore agricolo. La Commissione sarà sempre dalla parte degli agricoltori, specialmente quando, come oggi, attraversano momenti difficili. Lo scorso anno il settore lattiero-caseario ha sofferto a causa dell’embargo imposto dalla Russia. Per aiutare i produttori di latte a risollevarsi la Commissione ha perciò mobilitato 1 miliardo di euro. Perché non intendo accettare che il latte costi meno dell’acqua.
Essere europei, per la maggior parte di noi, è anche sinonimo di euro. Durante la crisi finanziaria mondiale l’euro si è mantenuto forte e ci ha protetto da un’instabilità che sarebbe potuta essere ben peggiore. L’euro è tra le monete più importanti del mondo e reca enormi benefici economici, spesso invisibili. I paesi della zona euro quest’anno hanno risparmiato 50 miliardi di euro di interessi grazie alla politica monetaria della Banca centrale europea: 50 miliardi di euro extra che i nostri ministri delle Finanze possono e devono investire nell’economia.
Mario Draghi sta preservando la stabilità della nostra moneta. Il suo contributo all’occupazione e alla crescita è più fattivo di quello apportato da molti dei nostri Stati membri.
Sì, è vero: noi europei siamo stati colpiti da una crisi finanziaria e del debito di portata storica. È altrettanto vero, però, che, se nel 2009 i disavanzi pubblici nella zona euro si attestavano in media al 6,3%, oggi sono inferiori al 2%.
Altre 8 milioni circa di persone hanno trovato lavoro negli ultimi tre anni. 1 milione nella sola Spagna, un paese che continua a registrare un’impressionante ripresa.
Vorrei che in Europa tutto ciò fosse ricordato più spesso quando i politici prendono la parola.
Perché nella nostra Unione incompleta non c’è una leadership europea che possa sostituire la leadership nazionale.
Le nazioni europee devono difendere le ragioni dell’unità. Nessuno può farlo per loro.
Solo loro possono farlo.
Possiamo essere uniti anche se siamo diversi.
Le grandi nazioni democratiche dell’Europa non devono piegarsi ai venti del populismo.
L’Europa non deve chinare la testa di fronte al terrorismo.
No. Gli Stati membri devono costruire un’Europa che protegge. E noi, istituzioni europee, dobbiamo aiutarli a mantenere questa promessa.
UN’EUROPA CHE DÀ FORZA
L’Unione europea non solo deve preservare il nostro modo di vivere ma deve anche dare forza a chi nell’Unione vive.
Dobbiamo costruire un’Europa che dia forza sia ai nostri cittadini sia alla nostra economia. E, oggi, entrambi hanno scelto il digitale.
Le tecnologie e le comunicazioni digitali permeano ormai ogni aspetto della nostra vita.
Ciò di cui non possiamo fare assolutamente a meno è l’accesso a internet ad alta velocità. Abbiamo bisogno di essere connessi: è indispensabile per la nostra economia. E’ indispensabile per i cittadini.
Ed è adesso che dobbiamo investire in questa connettività.
Per questo la Commissione propone oggi una riforma dei mercati europei delle telecomunicazioni. Vogliamo creare un nuovo quadro giuridico che attragga e permetta investimenti nella connettività.
Le aziende devono poter programmare investimenti in Europa per i prossimi vent’anni. Perché investendo in nuove reti e servizi, nei prossimi dieci anni potremo creare almeno 1,3 milioni di nuovi posti di lavoro.
La connettività dovrebbe essere a beneficio di tutti.
Per questo, la Commissione propone oggi di introdurre entro il 2025 in tutta Europa il 5G, la quinta generazione di sistemi di comunicazione mobile. Potremo così creare altri due milioni di potenziali posti di lavoro nell’UE.
Connettività a beneficio di tutti vuol dire che dove si vive e quanto si guadagna non sono importanti.
Oggi proponiamo quindi di dotare entro il 2020 ogni paese e città europei di un accesso gratuito a internet senza fili nei principali punti di aggregazione pubblica sul territorio.
Se il mondo ha scelto il digitale, dobbiamo anche dare forza ai nostri artisti e ai nostri creativi e proteggerne il lavoro. Il settore artistico e creativo è il nostro fiore all’occhiello. La creazione di contenuti non è un passatempo: è una professione. E fa parte della cultura di noi europei.
Il lavoro di giornalisti, editori e autori deve essere giustamente retribuito, che sia svolto in una redazione o a casa, che sia diffuso offline o online, che sia pubblicato con una fotocopiatrice o con un hyperlink sul web.
La revisione radicale delle norme europee sul diritto d’autore che proponiamo oggi va proprio in questa direzione.
Dare forza alla nostra economia significa investire non solo in connettività ma anche in occupazione.
Per questo l’Europa deve investire massicciamente nei giovani europei, in chi cerca lavoro e nelle start-up europee.
Il piano di investimenti per l’Europa da 315 miliardi di euro che abbiamo concordato proprio qui in quest’Aula solo dodici mesi fa, ha già raccolto, dalla Lettonia al Lussemburgo, 116 miliardi di investimenti nel primo anno di attività.
Oltre 200 000 piccole aziende e start-up in tutta Europa hanno avuto accesso a prestiti. E oltre 100 000 persone hanno trovato un nuovo lavoro. Questo grazie al Fondo europeo per gli investimenti strategici che ho proposto, che la mia Commissione ha sviluppato e che voi deputati del Parlamento europeo avete adottato in tempi record.
Ora bisogna andare oltre. Oggi la Commissione propone di raddoppiare la durata del Fondo e la sua capacità finanziaria.
Con il vostro appoggio, faremo sì che il Fondo fornisca un totale di almeno 500 miliardi di euro - 500 000 milioni - di investimenti entro il 2020. E ci spingeremo ancora più in là, fino a raggiungere 630 miliardi di euro entro il 2022. Certamente, con il contributo degli Stati membri, potremo arrivarci anche prima.
Ma oltre ad attrarre investitori privati dobbiamo anche creare l’ambiente giusto nel quale investire.
Le banche europee sono più in forma rispetto a due anni fa, grazie agli sforzi congiunti degli europei. L’Europa ha bisogno delle sue banche. Ma un’economia che dipende quasi interamente dal credito bancario non fa bene alla stabilità finanziaria. E neanche alle imprese, come abbiamo potuto constatare durante la crisi finanziaria. Per questo dobbiamo ora, con urgenza, accelerare il progetto dell’Unione dei mercati dei capitali. A questo proposito la Commissione vi presenta oggi una tabella di marcia concreta.
L’Unione dei mercati dei capitali renderà più resiliente il nostro sistema finanziario. Darà alle imprese un accesso più facile e diversificato ai finanziamenti. Immaginate una start-up finlandese che non riesce a avere un prestito. Attualmente, le possibilità sono molto limitate. L’Unione dei mercati dei capitali offrirà fonti vitali di finanziamento alternativo in grado di fornire alle start-up la spinta iniziale di cui hanno bisogno: dagli investitori informali (i cosiddetti business angel) al venture capital ai finanziamenti del mercato.
Solo per citare un esempio: circa un anno fa abbia presentato una proposta che facilita i prestiti delle banche. Potrebbe liberare altri 100 miliardi di euro di potenziali finanziamenti aggiuntivi per le imprese europee. Facciamo in modo, per favore, di accelerarne l’adozione.
In Europa i risultati del nostro piano europeo per gli investimenti sono stati migliori delle aspettative, ora dobbiamo estenderlo al livello mondiale, come ci hanno chiesto molti di voi e molti Stati membri.
Oggi lanciamo infatti un ambizioso piano di investimenti per l’Africa e il vicinato europeo che può raccogliere investimenti potenziali per 44 miliardi di euro. Se anche gli Stati membri metteranno mano al portafoglio, possiamo arrivare a 88 miliardi di euro.
La logica è la stessa che ha funzionato così bene per il piano di investimenti interno: useremo fondi pubblici come garanzia per attirare investimenti pubblici e privati per creare posti di lavoro veri.
Potremo così integrare il nostro aiuto allo sviluppo, contribuendo ad affrontare una delle cause profonde dei movimenti migratori. Si tratta di un intervento cruciale, visto che la crescita economica nei paesi in via di sviluppo ha raggiunto il suo livello più basso dal 2003. Questo nuovo piano rappresenta un’ancora di salvezza per tutti coloro che, altrimenti, sarebbero costretti a intraprendere un pericoloso viaggio alla ricerca di una vita migliore.
Pur continuando a investire per migliorare le condizioni di vita fuori dai nostri confini, dobbiamo investire anche nella risposta alle crisi umanitarie interne. Soprattutto e per prima cosa, dobbiamo investire nei nostri giovani.
Non posso e non voglio accettare che l’Europa sia e rimanga il continente della disoccupazione giovanile.
Non posso e non voglio accettare che la generazione del nuovo millennio, la generazione Y, possa diventare la prima generazione da settant’anni a questa parte a ritrovarsi più povera dei genitori.
Ovviamente, si tratta di un compito che spetta principalmente ai governi nazionali. Ma l’Unione europea può affiancare i loro forzi. Lo stiamo facendo con la garanzia dell’UE per i giovani che abbiamo lanciato tre anni fa. La mia Commissione ha migliorato l’efficacia e accelerato l’attuazione di questo programma, del quale hanno già beneficiato 9 milioni di giovani. Si tratta di 9 milioni di giovani che hanno trovato un lavoro oppure hanno avuto accesso a tirocini professionali o ad un apprendistato grazie all’UE. E continueremo ad attuare la garanzia per i giovani in tutta Europa, migliorando le competenze dei cittadini europei e offrendo sostegno alle regioni e ai giovani più bisognosi.
Stiamo facendo lo stesso con i programmi Erasmus, di cui hanno già beneficiato 5 milioni di studenti. È grazie a Erasmus che i giovani si spostano, viaggiano, lavorano, studiano e seguono formazioni nei paesi dell’UE. Uno studente Erasmus Plus su tre ha ricevuto un’offerta di lavoro dall’impresa in cui si è formato.
Possiamo fare di più. Ci sono molti giovani in Europa che si interessano al sociale e che sono disposti a dare un loro contributo significativo alla società, attraverso la solidarietà. Possiamo creare le opportunità perché possano farlo.
La solidarietà è il collante che tiene insieme l’Unione.
La parola solidarietà compare 16 volte nei trattati che tutti gli Stati membri hanno approvato e ratificato.
Il bilancio europeo è prova concreta della solidarietà finanziaria.
Siamo di fronte ad una prova importante di solidarietà nel momento in cui applichiamo insieme sanzioni europee quando la Russia viola il diritto internazionale.
L’euro è espressione di solidarietà.
La nostra politica di sviluppo è un forte segnale esterno di solidarietà.
E cominciamo a intravedere solidarietà anche nella gestione della crisi dei rifugiati. Sono convinto che sia necessaria ancora più solidarietà. Ma so anche che la solidarietà è un gesto spontaneo che viene dal cuore e non si può forzare.
Spesso la solidarietà emerge più spontaneamente davanti alle emergenze.
Quando le colline portoghesi sono andate a fuoco, sono stati gli aerei italiani a domare le fiamme.
Quando le inondazioni hanno interrotto la fornitura di energia elettrica in Romania, è grazie a generatori svedesi che la luce è ritornata.
Quando migliaia di rifugiati si sono riversati sulle spiagge greche, tende slovacche hanno fornito loro riparo.
In questo stesso spirito, la Commissione propone oggi di istituire un corpo europeo di solidarietà. I giovani di tutta l’UE potranno offrire il proprio aiuto laddove è più necessario per reagire alle situazioni di crisi, come la crisi dei rifugiati o il recente terremoto in Italia.
Voglio che questo corpo europeo di solidarietà venga istituito e sia attivo entro la fine dell’anno e che entro il 2020 vi partecipino i primi 100 000 giovani europei.
Entrando volontariamente a far parte del corpo europeo di solidarietà questi giovani potranno sviluppare le proprie competenze e fare un’esperienza non solo lavorativa ma anche umana senza pari.
UN’EUROPA CHE DIFENDE
Un’Europa che protegge è un’Europa che difende, sia al proprio interno che all’estero.
Dobbiamo difenderci dal terrorismo.
Dopo le bombe di Madrid del 2004 ci sono stati più di 30 attacchi terroristici in Europa, di cui 14 solo nell’ultimo anno. Oltre 600 persone innocenti sono morte in città come Parigi, Bruxelles, Nizza o Ansbach.
Siamo stati uniti nel cordoglio, e dobbiamo esserlo anche nella nostra risposta.
Gli atti barbarici dell’ultimo anno ci hanno dimostrato ancora una volta che ciò per cui combattiamo è il modo di vivere europeo. Di fronte al lato più oscuro dell’umanità dobbiamo preservare i nostri valori e rimanere fedeli a noi stessi e a quello che siamo: società democratiche, pluralistiche, aperte e tolleranti.
Tuttavia questa tolleranza non può mettere a rischio la nostra sicurezza.
Per questo fin dal primo giorno la sicurezza ha costituito una priorità per la mia Commissione: abbiamo perseguito il terrorismo e i combattenti stranieri (i foreign fighters) in tutta l’Unione europea, abbiamo preso seri provvedimenti contro l’uso delle armi da fuoco e il finanziamento del terrorismo, abbiamo collaborato con le società di internet per eliminare la propaganda terrorista dal web e abbiamo lottato contro la radicalizzazione nelle scuole e nelle carceri europee.
Ma dobbiamo fare di più.
Dobbiamo sapere chi attraversa i nostri confini.
Per questo li difenderemo con la nuova guardia costiera e di frontiera europea, che al momento, a soli nove mesi dalla proposta della Commissione, è in fase di formalizzazione da parte del Parlamento e del Consiglio. Frontex dispone già di 600 agenti sul terreno in Grecia, al confine con la Turchia, e di oltre 100 in Bulgaria. Adesso è necessaria una stretta collaborazione fra le istituzioni europee e gli Stati membri per istituire rapidamente la nuova agenzia. Voglio che a partire da ottobre ai confini esterni della Bulgaria siano stanziati 200 guardie di frontiera e 50 veicoli extra.
Difenderemo i nostri confini anche attraverso controlli serrati, che saranno adottati a fine anno, su tutti coloro che li attraversano. Per ogni ingresso o uscita dall’Unione europea saranno registrati data, luogo e motivazione.
Entro novembre proporremo un sistema europeo di informazione per i viaggi: un sistema automatico che consentirà di stabilire a chi è consentito l’ingresso in Europa. In questo modo saremo in grado di conoscere l’identità di tutti coloro che entrano in Europa ancora prima che arrivino.
Si tratta di informazioni di cui abbiamo tutti bisogno. Quante volte negli ultimi mesi abbiamo sentito storie di informazioni che potevano essere determinanti, ma che dal database del paese in cui erano conservate non sono mai giunte alle autorità del paese che ne aveva bisogno?
La sicurezza alle frontiere implica anche dare la priorità allo scambio di informazioni e di intelligence. Per questo rafforzeremo Europol, l’agenzia europea che offre supporto alle attività di contrasto a livello nazionale, attraverso un migliore accesso ai database e più risorse. Un’unità antiterrorismo che attualmente dispone di uno staff di 60 persone non può fornire la necessaria assistenza 24 ore al giorno, 7 giorni su 7.
Un’Europa che protegge difende anche i nostri interessi oltre i confini.
I fatti sono chiari: il mondo sta diventando più grande, e noi stiamo diventando più piccoli.
Oggi noi europei rappresentiamo l’8% della popolazione mondiale; nel 2050 saremo solo il 5%. Per quella data nessun paese dell’Unione europea sarà annoverato fra le principali economie mondiali. Ma l’Unione europea unita sarà ancora in testa alle classifiche.
I nostri nemici vorrebbero dividerci.
I nostri concorrenti vorrebbero approfittare della nostra divisione.
Solo uniti siamo e saremo una forza che non può essere sottovalutata.
Tuttavia, sebbene l’Europa sia fiera di svolgere un ruolo di “soft power” di rilevanza mondiale, non dobbiamo essere ingenui. Con un vicinato sempre più pericoloso, il potere di persuasione non è sufficiente.
Prendiamo ad esempio il conflitto brutale per la Siria. Le sue conseguenze per l’Europa sono immediate: attacchi nelle nostre città ad opera di terroristi addestrati nei campi di Daesh. Ma dov’è l’Unione, dove sono i suoi Stati membri nei negoziati per un accordo?
Federica Mogherini, il nostro alto rappresentante nonché mio vicepresidente, sta facendo un grande lavoro. Deve però diventare il nostro ministro degli esteri europeo, attraverso il quale tutte le diplomazie nazionali, di Stati grandi e piccoli, uniscano le forze per avere peso nei negoziati internazionali. È per questo motivo che chiedo oggi una strategia europea per la Siria. Federica deve sedere al tavolo delle trattative quando si discuterà del futuro di quel paese, perché l’Europa possa contribuire alla ricostruzione di una nazione pacifica e di una società civile pluralistica e tollerante in Siria.
L’Europa deve rafforzarsi. E ciò vale in primo luogo per la nostra politica di difesa.
L’Europa non può più permettersi di fare affidamento sulla potenza militare degli altri o di consentire che il suo onore in Mali sia difeso solo dalla Francia.
Dobbiamo assumerci la responsabilità di proteggere i nostri interessi e il modo di vivere europeo.
Nell’ultimo decennio ci siamo impegnati in oltre 30 missioni civili e militari dell’Unione europea, dall’Africa all’Afghanistan. Ma senza una struttura permanente non possiamo agire con efficacia: così operazioni urgenti vengono rimandate; missioni parallele, nello stesso paese o nella stessa città, hanno comandi distinti. È arrivato il momento di creare un comando unico per queste operazioni.
Dovremmo altresì andare verso risorse militari comuni, in alcuni casi di proprietà dell’Unione europea stessa. Questo, ovviamente, in totale complementarità con la NATO.
Le argomentazioni economiche in tal senso sono chiare: la mancata cooperazione nel settore della difesa costa all’Europa tra i 25 miliardi di euro e i 100 miliardi di euro all’anno. Una somma di denaro con cui potremmo fare molto altro.
Si può fare. Stiamo già costruendo una flotta multinazionale di aerocisterne. Dobbiamo solo copiare questo esempio.
Per una difesa europea forte è necessaria un’industria della difesa innovativa. Per questo proporremo prima della fine dell’anno un fondo europeo per la difesa, che dia un forte impulso alla ricerca e all’innovazione.
Il trattato di Lisbona consente agli Stati membri che lo desiderano di mettere insieme le loro capacità di difesa sotto forma di cooperazione strutturata permanente. Ritengo che sia giunto il momento di sfruttare questa possibilità. Spero quindi che l’incontro a 27 che terremo a Bratislava tra pochi giorni rappresenti, dal punto di vista politico, il primo passo in questa direzione.
Perché solo lavorando insieme l’Europa sarà in grado di difendersi, sia al proprio interno che all’estero.
UN’EUROPA CHE SI ASSUME RESPONSABILITÀ
L’ultimo punto che voglio affrontare riguarda la responsabilità. Assumersi la responsabilità di costruire questa Europa che protegge.
Invito tutte le istituzioni dell’UE e tutti gli Stati membri ad assumersi la responsabilità.
Smettiamola con la solita storia che il successo è nazionale mentre il fallimento è europeo, altrimenti il nostro progetto comune non sopravviverà.
Dobbiamo ricordare il senso di progettualità della nostra Unione. Invito pertanto ciascuno dei 27 leader in viaggio verso Bratislava a pensare a tre motivi che rendono necessaria l’Unione europea.Tre cose che si assumono la responsabilità di difendere e che sono disposti a realizzare subito dopo.
La lentezza con cui le promesse fatte vengono mantenute è un fenomeno che rischia di compromettere sempre di più la credibilità dell’Unione. Prendiamo l’accordo di Parigi. Noi europei siamo i leader mondiali nell’azione per il clima. È stata l’Europa a mediare il primo accordo storico sul clima giuridicamente vincolante e di portata mondiale. È stata l’Europa a riunire le ambizioni che hanno reso possibile l’accordo di Parigi. Eppure ora l’Europa stenta a dare il buon esempio e a essere la prima a ratificare il nostroaccordo. Finora, solo Francia, Austria e Ungheria lo hanno ratificato.
Invito tutti gli Stati membri e questo Parlamento a fare la propria parte nelle prossime settimane, non nei prossimi mesi. Dobbiamo essere più veloci. Ratifichiamo l’accordo di Parigi adesso. Si può fare. È una questione di volontà politica. E di influenza dell’Europa a livello mondiale.
Anche le istituzioni europee devono assumersi responsabilità.
Ho chiesto a tutti i miei commissari di essere pronti a discutere, nelle prossime due settimane, lo stato dell’Unione nei Parlamenti nazionali dei paesi che ciascuno conosce meglio. Dall’inizio del mio mandato, i commissari hanno effettuato più di 350 visite ai parlamenti nazionali. Ora voglio che ne facciano anche di più. Perché l’Europa può essere costruita solo con gli Stati membri, non contro di essi.
Dobbiamo assumerci responsabilità anche nel riconoscere quando non spetta a noi prendere determinate decisioni. Non è giusto che quando i paesi dell’UE non riescono a decidere tra loro se bandire o meno l’uso del glifosato nei diserbanti, la Commissione sia costretta dal Parlamento e dal Consiglio a prendere una decisione.
Quindi cambieremo queste regole, perché questa non è democrazia.
La Commissione deve assumersi responsabilità agendo non come organo tecnocratico ma come organo politico.
Una Commissione politica ascolta il Parlamento europeo, ascolta tutti gli Stati membri e ascolta i cittadini.
Ed è proprio l’ascolto che ha spinto la mia Commissione a ritirare 100 proposte nei primi due anni di mandato, a presentare l’80% di iniziative in meno rispetto ai 5 anni precedenti e ad avviare un riesame approfondito di tutta la legislazione vigente. Perché solo concentrandoci sugli ambiti in cui l’Europa può fornire un reale valore aggiunto e garantire risultati saremo in grado di rendere l’Europa un posto migliore e più affidabile.
Essere politici significa anche correggere gli errori tecnocratici non appena essi si verificano. La Commissione, il Parlamento e il Consiglio hanno deciso congiuntamente di abolire le spese di roaming per i telefoni cellulari. È una promessa che manterremo. Non solo per chi viaggia per affari e va all’estero per un paio di giorni. Non solo per i turisti che trascorrono due settimane al sole. Ma per i nostri lavoratori transfrontalieri. E per i milioni di studenti Erasmus che trascorrono uno o due semestri all’estero. Ho pertanto ritirato una proposta elaborata quest’estate da un funzionario ben intenzionato. La proposta non era tecnicamente sbagliata, ma non rispettava la promessa che avevamo fatto. Dalla prossima settimana sarà disponibile una proposta nuova e migliore. Telefonare in viaggio sarà come farlo da casa.
Essere politici è anche ciò che ci consente di realizzare il patto di stabilità e crescita con buon senso. La creazione del patto è stata influenzata dalla teoria e la sua applicazione è diventata una dottrina per molti. Oggi è addirittura un dogma per alcuni. In teoria, un singolo punto decimale sopra al 60 per cento nel debito di un paese dovrebbe essere sanzionato. In realtà occorre analizzare i motivi del debito. Dovremmo provare a sostenere e non a punire gli sforzi di riforma in atto. Per questo sono necessari politici responsabili. E continueremo ad applicare il patto non in modo dogmatico, ma con buon senso e con la flessibilità che saggiamente abbiamo previsto nelle regole.
Infine, assumersi responsabilità significa anche rispondere agli elettori del nostro operato. Per questo proporremo di modificare la regola assurda per cui i commissari devono rinunciare alle proprie funzioni quando si candidano alle elezioni europee. La cancelliera tedesca, i primi ministri ceco, danese o estone non smettono di fare il loro lavoro quando si candidano per essere rieletti. Non dovrebbero farlo neanche i commissari. Se vogliamo una Commissione che risponda ai bisogni del mondo reale, dovremmo incoraggiare i commissari a cercare il necessario rendez-vous con la democrazia. E non a evitarlo.
CONCLUSIONI
Onorevoli deputati,
ho la stessa età del progetto europeo, che il prossimo anno, nel marzo 2017, compirà 60 anni.
Ho vissuto per questo progetto, ho lavorato per questo progetto tutta la mia vita.
Mio padre credeva nell’Europa, perché credeva nella stabilità, nei diritti dei lavoratori e nel progresso sociale.
Perché aveva capito molto bene che la pace in Europa era preziosa, e fragile.
Io credo nell’Europa perché mio padre mi ha trasmesso questi stessi valori.
Ma cosa stiamo insegnando oggi ai nostri figli? Cosa erediteranno da noi? Un’Unione che si disgreghi nella discordia? Un’Unione che ha dimenticato il proprio passato e che non ha una visione del futuro?
I nostri figli meritano di più.
Meritano un’Europa che preservi il loro modo di vivere.
Meritano un’Europa che li difenda e dia loro forza.
Meritano un’Europa che li protegga.
È giunto il momento che tutti, istituzioni, governi e cittadini, si assumano la responsabilità di costruire questa Europa. Insieme.
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